Giancarlo Palmieri, Vincenzo Pincolini, Amos Casti
(Si ringrazia l’Editore MNL Scientific Publishing & Communication per l’autorizzazione alla pubblicazione)

Il Doping e la sua storia

L’origine del doping, termine della lingua inglese che si riferisce all’assunzione di sostanze non consentite, farmacologiche o fisiologiche in quantità anomala, per incrementare le prestazioni dell’organismo, va ricercata nell’usanza di popolazioni dell’Africa come i Cafri, i quali nel loro idioma definivano “Dop” un estratto liquoroso eccitante che veniva bevuto durante le cerimonie religiose.
La storia del doping, ovvero il tentativo di modificare le prestazioni atletiche con mezzi non fisiologici o comunque illeciti nel corso di competizioni sportive, inizia molto tempo fa, quando non esisteva la chimica e venivano impiegate sostanze di origine naturale per migliorare la propria condizione fisica. Abbiamo, infatti, notizie di episodi di doping fin dalle prime edizioni delle olimpiadi, allorquando gli atleti ingerivano sostanze stimolanti mescolate agli alimenti carnei e alle bevande. D’altra parte l’assunzione di sostanze che aiutassero a sopportare la fatica e gli sforzi era, ed in qualche caso lo è ancora oggi, consuetudine presso le popolazioni vichinghe, cinesi e andine.
Tracce storiche, risalenti al terzo secolo a.C., testimoniano l’utilizzo di alcuni infusi di funghi applicati localmente come impacchi, a scopo più stimolante che curativo o lenitivo.
Per lunghi secoli non si trova menzione storica della pratica del doping, probabilmente anche in relazione al fatto che le competizioni olimpiche, al pari di altre attività agonistiche, vennero interrotte o persero d’importanza, dopo la caduta dell’Impero Romano, finché non vennero reintrodotte le moderne olimpiadi nel 1896 per merito del barone De Coubertin.
Contemporaneamente alla ripresa significativa delle competizioni sportive, si assistette alla ripresa della pratica del doping: gli atleti assumevano sostanze zuccherine, caffè, alcool ma anche stricnina e nitroglicerina, che potevano sortire effetti collaterali talora gravemente invalidanti se non addirittura mortali. Le statistiche mediche sportive non fecero tuttavia registrare fino alla metà del novecento un utilizzo diffuso delle sostanze dopanti, dato che un vero e proprio incremento numerico significativo di atleti che usavano tali sostanze venne registrato nel secondo dopoguerra, intorno al 1950, quando la consuetudine di assumere anfetamine si trasferì dai militari impegnati sui fronti di guerra agli sportivi. Ad onor del vero, l’autosomministrazione era più un evento estemporaneo che sistematico, accadendo soprattutto in concomitanza di gare importanti ed impegnative, oppure era abitudine di pochi atleti professionisti o semiprofessionisti resi esausti da impegni frequenti ed estenuanti.
Fu proprio a partire dagli anni ’50 che l’aneddotica si arricchì di storie di ciclisti che improvvisamente non vedevano più le curve della strada o che dopo alcune gare non dormivano per diverse notti. Tuttavia fu solamente a seguito del decesso del ciclista Tommy Simpson avvenuta negli anni ’60 sul Mont Ventoux, ascritto allora all’effetto additivo di anfetamina e grande caldo, che emerse alla ribalta delle cronache e all’attenzione del grande pubblico il problema connesso con l’uso di sostanze potenzialmente mortali da parte degli sportivi.
In quegli stessi anni, giungevano dai paesi dell’Est Europa, notizie sull’impiego di sostanze che in poco tempo erano in grado di aumentare a dismisura la resa muscolare: la voce era alimentata anche dalla constatazione che nelle competizioni più importanti, come le Olimpiadi, gli atleti dei paesi dell’Est dominavano, portando nell’Atletica leggera, soprattutto nelle gare di lancio (peso, giavellotto, ecc.) le misure dei record mondiali a valori stupefacenti per quei tempi.
Il culmine della diffusione del doping tra gli atleti di livello superiore e di fama internazionale, che la memoria ricordi dal tempo delle Olimpiadi e dei giochi romani, lo si raggiunse alla fine degli anni ’70. Il fenomeno divenne eclatante e si manifestò in molti sportivi, soprattutto nelle donne che assumevano forti dosi di anabolizzanti, i tratti somatici delle quali si trasformavano diventando decisamente mascolini.
Quando ci si accorse della ampia diffusione del doping tra gli atleti famosi, ci si rese conto anche di quanto diffuse fossero in tutto il mondo, specialmente nei cosiddetti sport di forza, queste pratiche illecite e quanto potessero essere gravemente pericolose: ancora una volta iniziarono a circolare e a diffondersi notizie di gravi patologie, soprattutto forme tumorali, conseguenti a prolungati periodi di assunzione di sostanze ormonali.
Con la caduta del muro di Berlino, l’occidente poté venire a conoscenza di ciò che realmente era accaduto per decenni agli atleti dei paesi del blocco sovietico come la Germania Est e la Russia. I governanti di quelle nazioni avevano sostanzialmente imposto, per scopi di propaganda politica e per rinforzare il sentimento popolare nazionalistico e antioccidentale attraverso le vittorie sportive, il doping di stato: giovani ragazzi e ragazze di tutte le età dovevano assumere ormoni anabolizzanti, farmaci e tutto ciò che potesse servire allo scopo di vincere le competizioni internazionali, senza badare agli effetti collaterali a breve e a lungo termine.
Purtroppo, anche al di qua della cosiddetta “cortina di ferro”, nei paesi occidentali, l’assunzione di ormoni anabolizzanti si era intanto diffusa al punto di diventare un “tratto culturale” di molti sportivi, specialmente tra i cultori del bodybuilding: negli anni ’70-’80 tra i pesisti l’utilizzo di anabolizzanti si configurava come una sorta di rito obbligato.
Mentre gli anabolizzanti venivano utilizzati per aumentare la massa muscolare, negli sport di resistenza ci si rivolse a sostanze e a metodiche capaci di influenzare la durata dello sforzo, intervenendo soprattutto sulla massa sanguigna. Accadde così che tra i fondisti dello sci e dell’atletica e tra i ciclisti si diffuse la pratica delle autoemotrasfusioni con sacche di sangue prelevato durante i periodi di riposo le quali venivano tenute in frigorifero e trasfuse durante i periodi di attività agonistica: comparvero così un po’ ovunque le centrifughe e altri macchinari adatti sia per lavorare il sangue che per controllare i valori dell’ematocrito.
L’edonismo sportivo della fine degli anni ’80 e dei primi anni ’90 portò ad enfatizzare gli aspetti estetici degli atleti favorendo l’affermazione di canoni fisici di muscolarità; successe così che nelle palestre, ubiquitariamente, si trovassero preparatori senza scrupoli pronti ad offrire, a chiunque lo volesse, facili ricette e mezzi più o meno consentiti per abbreviare i percorsi della fatica e per essere in linea con le mode, al punto che l’uso delle sostanze dopanti in questi ambienti superò di gran lunga la incidenza delle pratiche doping negli ambienti sportivi di alto livello.
Con la commercializzazione dell’ormone della crescita, il GH, che presto venne considerato dagli inesperti la panacea adatta ad ogni bisogno e scopo, definendolo, tra l’altro, principio “antinvecchiamento” perfetto, lo sport amatoriale fu travolto in una spirale consumistica di doping, anche per le formidabili abilità di convincimento degli “spacciatori” che spingevano al consumo al motto “tanto non fa male”. Il fenomeno si spinse a livelli estremi, al punto che moltissimi sportivi improvvisati, come i ciclisti della domenica, volendo strabiliare amici e parenti, facevano consumo regolare di ormoni e di altre sostanze dopanti, finendo con l’essere trovati positivi ai controlli a sorpresa: negli anni ‘90 furono talmente tanti i casi positivi tra gli sportivi di basso livello che neppure i giornali se ne occuparono più.
Attualmente il mercato del doping è di tale vastità che si può solo formulare una stima approssimativa delle sue dimensioni, ma ciò che preoccupa di più le autorità è il livello di sofisticatezza raggiunto dai preparati, livello in grado di mettere in difficoltà i sistemi più moderni di controllo, i quali, invero, hanno mostrato negli ultimi anni molti limiti, in parte dovuti anche a legislazioni non omogenee tra gli stati e a discordanze di applicazione tra le diverse federazioni sportive. Intanto però lo sport piange i suoi morti: pochi sono i nomi famosi come quello di Pantani ma molti, moltissimi, sono gli sconosciuti che perdono la salute e anche la vita per colpa di abusi che ancora troppo spesso vengono considerati privi di reale pericolosità.

Cos’è il Doping

La prima definizione ufficiale di doping adottata dal Comitato Internazionale Olimpico (C.I.O.) nel corso del Congresso di Strasburgo del 1963 recitava testualmente: “Il doping è la somministrazione ad un soggetto sano o l’utilizzazione fatta dal soggetto stesso, con qualsiasi altro mezzo, di una sostanza estranea al suo organismo. E questo con il solo scopo di aumentare artificialmente ed in maniera sleale la prestazione del soggetto in occasione della sua partecipazione ad una competizione.” I primi pronunciamenti ufficiali intorno alla questione del doping risalgono dunque al ’63 mentre nel ’67 iniziarono i primi controlli antidoping, sebbene già nel 1910 a Vienna il chimico Bukowsky aveva eseguito i primi esami scientifici sui cavalli da corsa.
Possiamo considerare quegli anni ’60 come un’epoca pionieristica nel campo di indagine degli illeciti sportivi, anche in virtù del fatto che non si sapeva molto su quanto stava succedendo nei paesi dell’Europa dell’est, dove il numero di atleti era elevato e i movimenti sportivi in grandissimo sviluppo. Lo sport ricopre da sempre ruoli che vanno oltre la semplice prassi agonistica, assumendo persino il significato di strumento per fornire ed incrementare la credibilità di regimi dittatoriali: fu così, come abbiamo già menzionato, che governanti privi di scrupoli sono potuti arrivare ad imporre il doping di Stato pur di sfruttare a scopi extrasportivi le medaglie conquistate dai propri atleti nei Campionati Mondiali e alle Olimpiadi, diffondendo in tal maniera la falsa credenza che le nazioni da loro governate fossero il regno della cultura sportiva, luoghi in cui tutti potevano praticare sport e vivere liberi e sani. Più tardi si seppe della triste realtà, delle tante vittime fatte da quelle ossessioni di vittoria, da quegli abusi indotti a scopo propagandistico, come ad esempio le numerose atlete che successivamente avevano messo al mondo figli con gravi malformazioni, oppure osannati vincitori che dopo aver innalzato al cielo le loro medaglie iniziavano lunghi pellegrinaggi fra ospedali e case di cura. Quello dei paesi dell’est fu doping di stato ma purtroppo la cultura dell’abuso, dell’illegalità e del barare nello sport si è diffusa ovunque al punto che ora ci si droga anche per ingannare se stessi.
In verità, la questione del doping non è avulsa dal contesto culturale generale e dal significato sociale rivestito dallo sport; la trasformazione del nostro modo di vivere e di intendere usi e costumi ha coinvolto anche il mondo dello sport e dei suoi valori originali.

La prospettiva con la quale molti giovani avviano la loro attività sportiva, anteponendo la correttezza morale e l’impegno fisico e mentale alla facilità di vittorie, tende a modificarsi nel corso degli anni di frequentazione di palestre e di stadi. I sani principi etici che sostengono il sacrificio di lunghi e faticosi allenamenti e gli obiettivi di competere in maniera leale e senza scorrettezze, puntando più alla ricerca di un continuo miglioramento delle proprie prestazioni personali che alla vittoria ad ogni costo, cedono gradualmente il passo a logiche di supremazia, di fama, di interessi economici, cosicché il doping travalica il fatto sportivo per assumere significato edonistico, economico, psico-sociale laddove “vincere anche con mezzi illegali ma vincere” comporta soddisfazione narcisistica e notorietà che prelude a guadagni che possono cambiare il destino personale.
Il doping possiede dunque risvolti sociali, né possono essere trascurati gli aspetti che lo accomunano alle altre forme di “supplementazione” ricercate dalla gente come l’ecstasy per passare una notte di “sballo” o la cocaina per accrescere il proprio tono umorale o le anfetamine per il loro effetto anoressizzante e dimagrante.
Il doping non è più da tempo associato solamente allo sport: è una piaga dal risvolto sociale eppure è allo sport che esso causa il danno maggiore attraverso le immagini e i giudizi gravemente negativi che la pubblica opinione inevitabilmente finisce per costruirsi su di esso.
Il doping causa danni immensi anche agli operatori sportivi seri, agli allenatori scrupolosi e ai preparatori atletici competenti, molti dei quali laureati in scienze motorie o comunque impegnati in lunghi anni di studio e di ricerche: pochi irresponsabii atti di incompetenti praticoni, i quali sfruttando qualche nozione mandata a memoria spingono gli atleti all’assunzione di principi dopanti, vanificano il lungo lavoro di specialisti incentrato su programmi di preparazione di alta qualità e basati sulla cultura dell’allenamento, una cultura scientifica e ricercata che sa e che mette in guardia dall’illusione pericolosa costituita dal voler arrivare a portentose prestazioni in poco tempo senza curarsi di problemi biomeccanici o di supercompensazione.
Al danno diretto sulla salute, il doping associa la perdita della vera essenza della cultura sportiva che è la sana attività motoria, la temperanza morale, la costanza nel perseguire il proprio miglioramento fisico e mentale ed il rispetto delle regole e dell’avversario, nonché la fedeltà a quei principi di lealtà e correttezza che hanno da sempre differenziato il mondo degli sportivi, rendendolo unico e fonte di orgoglio per chi vi appartiene.

Il Doping: lo stato dell’arte ed i primi veri “pentiti”

Ogni volta che una bufera mediatica che si è abbattuta sullo sport per questioni di doping termina, si dice che il più è passato, che da ora in poi tutto cambierà in meglio. Sappiamo tutti che così non avviene, perché il fenomeno del doping ha ormai dimensioni planetarie e radici profonde: a testimonianza di questa affermazione ricordiamo due avvenimenti tra loro assolutamente diversi e molto lontani.
Il 22 gennaio 2002 il presidente americano Bush ha dichiarato guerra agli steroidi anabolizzanti ed al doping in generale. Egli ha invitato tutte le grandi organizzazioni dello sport professionistico americano a vietare l’assunzione di ormoni e ad intensificare i controlli e a inasprire le pene.
Alcuni anni fa le associazioni di Baseball iniziarono ad effettuare i primi controlli antidoping e subito fu scandalo perché nientemeno che il recordman dei fuoricampo, Mc Gwire (con oltre 70 colpi) faceva addirittura pubblicità ad una linea di anabolizzanti (negli USA ciò è possibile).
L’altro grande campione di quel periodo, Barry Binds, invece frequentava regolarmente un centro californiano dove si utilizzava alla luce del sole il famoso TGH, una delle ultime frontiere degli ormoni. Anche nel Basket si effettuano da tempo i controlli e le pene non sono, neanche in questo caso, molto severe (la prima sanzione comminata consiste in alcune giornate di squalifica) mentre nel Football, in caso di positività ai controlli, si paga solo una multa. Addirittura, nell’Hockey le commissioni antidoping continuano a ricercare solamente le anfetamine, la cocaina e le droghe più pesanti.
Il deciso intervento di Bush è stato importante perché ha fatto chiaramente capire all’opinione pubblica che d’ora in avanti anche le grandi “majors” americane dello sport avrebbero dovuto stringere maggiormente i controlli su un fenomeno che ormai aveva assunto dimensioni sociali, con estensione ben oltre il mondo dello sport professionistico, e che continua a coinvolgere enormi interessi economici, in particolare quelli di una catena di laboratori irregolari ai confini fra Messico e USA che riforniscono di anabolizzanti tutto il mondo.
La posizione di Bush è molto importante poiché va a rafforzare con una presa d’atto ufficiale tutto il movimento antidoping mondiale che trovava nel mondo professionistico americano, alla ricerca esasperata dello spettacolo ad ogni costo (salute dei protagonisti compresi), un anello debole.
Qualche cosa, dunque, sembra si stia muovendo con maggiore determinazione, come dimostrerebbe il secondo avvenimento a cui facevamo accenno.
La stampa internazionale ha recentemente rivolto grande attenzione alle rivelazioni del ciclista professionista spagnolo Jesus Manzano che negli ultimi mesi, prima al quotidiano sportivo spagnolo AS e quindi alla magistratura sia spagnola che italiana, ha confessato di aver assunto negli ultimi anni grandi quantità di farmaci proibiti.

Manzano, che nella recente stagione è stato ingaggiato dalla squadra italiana “Amore e Vita” (la quale da anni lotta contro l’uso smodato dei farmaci), ha raccontato di vicende personali e non riguardanti l’uso di nandrolone, di Epo, di stimolanti, di GH, di autoemotrasfusione, di ormoni femminili ed altro, spesso assunti sotto la diretta sorveglianza di medici sociali.
Le pratiche ed i prodotti utilizzati negli ultimi anni, ha raccontato Manzano, sono cambiati in funzione dei metodi antidoping impiegati. Così, ad esempio, il nandrolone veniva assunto per bocca e non più per via intramuscolare, mentre l’autoemotrasfusione è tornata in auge dopo che la UCI (Unione Ciclistica Internazionale) ha validato il test antiepo messo a punto dai francesi.
Il ciclista spagnolo racconta di essere arrivato fino a 10-12 iniezioni al giorno, all’uso di numerose pasticche, di cerotti a lenta cessione e di supposte. Nel doping ci si può ridurre ad uno stato di dipendenza dai farmaci toccando livelli di compulsione impensabili che spingono perfino a doparsi mentre si sta gareggiando. Lo stesso Manzano svenne durante il Tour de France per l’assunzione di un prodotto dopante direttamente in corsa.
A tentare di porre un argine a questo preoccupante stato di cose intervengono ricerche e studi scientifici che vedono la Francia in primo piano in questa battaglia scientifica ma anche di costume e dunque inevitabilmente mediatica: alcuni organi di stampa come “Equipe” un quotidiano sportivo francese, vero e proprio leader nella lotta antidoping, ha dedicato ampio spazio alla pubblicazione di uno studio di un gruppo di psichiatri che ha documentato con dati particolareggiati e inconfutabili come il fenomeno doping sia sempre più associato ed in continuità con l’uso delle droghe vere e proprie. Inizialmente la dipendenza da droghe e la dipendenza da sostanze dopanti percorrono strade diverse ma con il tempo finiscono con il condividere un tragico destino comune, come testimonia la triste fine di quel grande campione che è stato Marco Pantani.
Fortunatamente non tutti i grandi campioni, non tutti i nostri miti sportivi sono personaggi che abusano di fiale e pastiglie, però molti di loro non sono immuni da tentazioni e forse in tanti non sono consapevoli del reale pericolo che li circonda, senza considerare che tutto il mondo dello sport sta correndo un rischio serio di subire un danno d’immagine gravissimo.
Riponiamo grande fiducia in futuri altri Manzano che collaboreranno ad indicarci dove e come intervenire e negli studi scientifici che consentiranno di migliorare le tecniche di indagine e di prevenzione, con la speranza di poter dare una spallata definitiva ad un fenomeno che possiamo definire una piaga sociale. Tuttavia, bisogna anche e soprattutto intervenire attraverso l’informazione sui giovani, su quanti si apprestano ad iniziare l’attività agonistica e su quanti già la stanno facendo. Bisogna che torni a prevalere la convinzione del barone De Coubertin che “importante è partecipare, non vincere”, che la salute è un bene più prezioso di tutte le medaglie e di tutti i contratti pubblicitari del mondo, che il grande fascino dello sport è racchiuso proprio nella lealtà e nella dedizione che spinge all’impegno costante verso il miglioramento fisico e psichico di sé stessi, che nulla, proprio nulla, giustifica il diventare schiavi di sostanze che avvelenano l’organismo molto prima di aiutarlo ad ottenere prestazioni esaltanti e vittoriose, vittorie che se ottenute con il doping avviliscono l’atleta prima ancora dello sport e lo spingono sull’orlo di precipizi tanto profondi da poter essere mortali.

Il codice mondiale antidoping (l’Agenzia WADA-AMA)

C’è voluto molto tempo, qualche morto e numerose inchieste scandalistiche sulla stampa internazionale, ma alla fine le pubbliche opinioni di tutti i Paesi si sono dovute rendere conto che il doping è un fenomeno mondiale, come è stato confermato anche dal presidente Bush e dalle sue recenti prese di posizione contro gli anabolizzanti. Proprio la constatazione che il fenomeno è ormai planetario ha indotto numerose nazioni ad affrontare questo grande problema in maniera coordinata, globale e con determinazione.

Il primo paese che ha legiferato in materia di doping è stata la Francia nel 1965, mentre in Italia l’argomento è stato trattato per la prima volta nella legge n° 1099 del 26101971. Con la legge n° 522 del 1995 l’Italia ha notificato la convenzione contro il doping siglata a Strasburgo nel 1989 dagli Stati Membri del Consiglio d’Europa. In questa maniera è stata recepita dal nostro ordinamento una normativa organica circa l’uso di sostanze chimiche e farmaceutiche per il miglioramento delle prestazioni sportive. La legge n° 376 del 2000 ha introdotto importanti novità quali la rilevanza penale attribuita a queste forme di reato e l’istituzione di una commissione di controllo che stabilisce, con cadenza non superiore a sei mesi, quali siano le sostanze e le pratiche mediche il cui impiego è considerato doping; inoltre la legge ha stabilito che qualsiasi pratica volta ad alterare i risultati dei controlli viene equiparata al doping.
Una data importante nella lotta contro il doping è stato il 1998, quando la scoperta che durante il Tour de France di ciclismo avveniva ampio e diffuso abuso di una grandissima quantità di sostanze vietate, fece scoppiare uno scandalo internazionale il quale portò alla evidenza del pubblico e dei media di tutto il mondo le reali dimensioni di questo fenomeno negativo nello sport professionistico.
In quegli anni vi è da segnalare una certa confusione di comportamento regnante fra gli organismi sportivi, come le Federazioni nazionali ed internazionali, al punto che le sanzioni antidoping spesso venivano contestate o annullate per problemi di burocrazia o di procedura da parte di tribunali civili.
Alla minaccia che tutto il mondo dello sport potesse perdere di credibilità, il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) convocò nel febbraio 1999 a Losanna la prima Conferenza Mondiale Antidoping durante la quale nacque l’idea di affidare, ad un organo sopra le parti, il controllo e il potere di emanare normative in questa materia così complessa.
Sempre a Losanna, nel novembre dello stesso anno ha mosso i primi passi l’AMA (Agencie Mondiale Antidopage) o WADA (World AntiDoping Agency) un organismo indipendente, frutto della collaborazione di tutto il movimento olimpico mondiale con i governi di molte nazioni. Questa agenzia dovrebbe rappresentare il futuro della lotta antidoping in tutto il mondo.
Nel marzo 2003 a Copenaghen, oltre 1.000 delegati provenienti da tutti i continenti hanno dato vita ad una ulteriore conferenza mondiale sui problemi del doping nel corso della quale il Codice della Wada è stato sottoscritto all’unanimità. Fra le tante regole che il Codice impone agli oltre 100 paesi affiliati si trova finalmente quella concernente l’uguale trattamento sanzionatorio: due anni di squalifica al primo episodio e radiazione a vita dalle federazioni al secondo. Non sarà più consentito affidarsi alla differenza di normative e sperare in annullamenti di sentenza per questioni procedurali in quanto per tutti gli sport i prelievi dall’organismo ed i controlli antidoping saranno effettuati con i medesimi standard riconosciuti dagli stessi governi delle nazioni firmatarie.
Le singole Federazioni e le singole Leghe professionistiche non potranno andar contro le indicazioni del Codice Wada, come è successo recentemente per il tennis in cui sette professionisti, affiliati all’ATP, sono stati graziati da essa dopo essere stati accusati in altra sede di aver assunto Nandrolone. L’ATP ha giustificato la sua sentenza di assoluzione parlando di assunzione involontaria dell’ormone tramite un integratore inquinato.
Sebbene ancora non tutte le federazioni e gli organismi sportivi mondiali abbiano riconosciuto il codice WADA, attualmente si punta a mantenere sotto l’egida della WADA stessa tutto il movimento olimpico. Gli atleti di organismi privati come la NBA (la lega dei professionisti americana di basket) o come l’ATP di tennis saranno costrette a riconoscere il codice WADA nel momento in cui vorranno partecipare a manifestazioni (campionati mondiali o olimpiadi) che si svolgeranno sotto la sua egida.
Una prima Convenzione finale sarà firmata e sottoscritta da tutti i paesi aderenti, con la garanziadell’Unesco (organizzazione dell’Onu per l’educazione, le scienze e la cultura) nel settembre 2005 cosicché le prime Olimpiadi in cui il codice sarà operativo e applicato integralmente saranno quelle invernali di Torino del 2006.
Già dalle Olimpiadi dell’estate 2004, comunque, il Codice WADA dovrà essere rispettato da tutte le federazioni dei paesi che hanno sottoscritto l’impegno.
Accanto alle procedure di indagine e ricerca dei casi di doping la WADA si adopererà, diffusamente, alla sensibilizzazione di tutti i praticanti sportivi sui problemi dell’uso e dell’abuso di tutte le sostanze proibite elencate nelle sue liste, cercando la fattiva collaborazione con gli apparati scolastici e Universitari di tutti i paesi aderenti.
In questa prospettiva, quindi, l’antidoping non viene più inteso solamente come investigazione e comminazione di pene ma anche come diffusione di una cultura dello sport “pulito” e di un’etica aderente ai principi fondamentali del vero spirito olimpico.

Doping: stili di vita e prevenzione

Doping sportivo e aspetti sociali del doping sono due facce di un problema che può e deve essere affrontato parallelamente. Se, infatti, nel doping sportivo di alto livello possono essere individuati i grandi interessi economici e politici dello spettacolo che spingono gli atleti verso la deriva dell’abuso di sostanze, nelle nostre società moderne è possibile individuare una spinta culturale al doping dovuta alla enfatizzazione di modelli estetici e sociali che premiano le figure vincenti e che privilegiano l’immagine di un corpo ben modellato piuttosto che la sua integrità e la sua salute. Esistono così uomini e donne che vogliono perdere rapidamente peso per assumere una silhouette da indossatore o di uomini e donne che vogliono accrescere la propria massa muscolare per compensare fragilità e insicurezze psicologiche di fondo, oppure perché ritengono che così facendo otterranno ammirazione e successo nelle relazioni interpersonali.
Purtroppo moltissime di queste persone non sono pienamente consapevoli che non si può raggiungere la condizione desiderata di ipermagri o di ipermuscolosi senza pagare talora dei costi molto elevati, così come nello sport non si può sempre cercare di stravincere senza mettere in previsione che esiste anche la sconfitta la quale, peraltro, può anche essere onorevole. Anzi, i messaggi culturali più ascoltati sembrano proprio essere quelli che sostengono che la normalità si identifica con la mediocrità e che la vittoria nello sport come nella vita vada ricercata anche con la chimica e perseguita anche con mezzi illeciti, se la contingenza lo impone.
Invece le cose non stanno e non possono stare così. Per aumentare le proprie masse muscolari in maniera corretta e funzionale occorre allenarsi in modo sistematico e continuo, alternando gli allenamenti con “grandi carichi” agli allenamenti “di scarico”, occorre studiare i tempi di recupero individuali, occorre correggere i movimenti e gli esercizi per ottenere migliori risultati e soprattutto occorrono anni per raggiungere obiettivi importanti.
La Scienza dell’allenamento, è vero, mette in condizione anche i meno dotati, oltre ai più dotati da madre natura, di sviluppare capacità atletiche rilevanti, ma ciò può avvenire solo attraverso allenamenti duri, attraverso programmazioni scientifiche che solo gli specialisti della Teoria dell’allenamento e i fisiologi sono capaci di impostare, senza scorciatoie.
Accanto alla pianificazione di allenamenti duri e intensi si affiancano programmazioni alimentari specifiche e corrette integrazioni studiate da specialisti del settore.
Ecco, se tutto questo fosse accettato e diventasse consuetudine di tutti, quasi certamente le più importanti forme di doping, se non tutte, verrebbero ridimensionate nel numero e nella qualità. Allo stesso modo, riuscire a riportare al centro dei messaggi culturali che trattano del costume e all’attenzione sociale la priorità di una buona condizione di salute psicofisica vorrebbe dire diffondere il modello di un corretto “stile di vita”.
Il 2004 è stato dichiarato dalla Commissione Europea “Anno dell’educazione attraverso lo sport”. Uno sport naturalmente inteso come integro, pulito e lontano da ogni forma di contaminazione, sia essa chimica o di altro genere.
In questi 12 mesi i paesi della UE dovranno promuovere i valori educativi dello sport e lo dovranno fare attraverso l’intensificazione di rapporti che dovranno essere sempre più stretti e sinergici fra le istituzioni scolastiche ed i settori sportivi più importanti: si vuole arrivare a far recepire alle giovani generazioni come, andando oltre gli aspetti della passione e della pura competizione, lo sport possa essere veicolo di trasmissione di valori etici e di miglioramento dell’educazione.
Problemi importanti, anche a motivo della loro prevalenza sociale, come i danni da fumo, i danni conseguenti ad una scorretta alimentazione (obesità e anoressia), i danni da mancanza o da carenza di attività fisica, oltre ai danni del doping a vari livelli, costituiscono una unica questione dalle molteplici sfaccettature.
Nella Relazione 2001-2002 del Ministero della Salute in tema di salute sociale è stato fatto esplicito riferimento a come solo attraverso una sistematica campagna di sensibilizzazione sull’importanza della prevenzione si possano modificare in positivo alcuni aspetti negativi come la mancanza di movimento e la scorretta alimentazione.
Speriamo che presto, dopo il successo della campagna ministeriale di sensibilizzazione sulla necessità di una corretta alimentazione, venga avviata in tempi brevi un’analoga campagna di sensibilizzazione sociale sulla correttezza dell’attività fisica e dello sport in generale. Esso dovrebbe essere innanzitutto:

  • uno sport dove i ragazzi e prima ancora i bambini trovino tanto divertimento e tanto spazio per la creatività
  • uno sport che non riduca bambini di 6-7 anni a caricature di campioni professionisti
  • uno sport dove fino a 10-12 anni l’obiettivo sia quello dell’acquisizione di molteplici capacità motorie differenziate e non la specializzazione a tutti i costi
  • uno sport in cui le Federazioni e le Società Sportive ritrovino il loro ruolo educativo e la componente pedagogica sia preminente rispetto a quella di selezionamento di pseudotalenti
  • uno sport attento a ad un giusto rapporto fra le tappe di crescita del giovane e il suo apprendimento motorio.

Uno sport, in definitiva, che sappia seminare cultura sportiva, quella cultura sportiva che certamente potrebbe rappresentare un antidoto nei confronti della contaminazione del doping e delle logiche del “vincere ad ogni costo e sempre”.
La lotta contro il doping, dunque, deve essere condotta anche attraverso una forte campagna di sensibilizzazione sui campi sportivi, quei campi sportivi dove è bello vedere bambini, ragazzi, giovani, meno giovani e … quasi anziani affrontarsi con lealtà e correttezza per … vincere.

Il Doping delle zone d’ombra

Quando si menziona il problema del doping, il riferimento corre subito e per lo più ai campioni di varie discipline sportive o quanto meno a una élite di sportivi di elevatissimo livello i quali, per la loro fama, fanno notizia quando vengono scoperti essere consumatori di sostanze dopanti. In verità, le vicende di doping che coinvolgono nomi prestigiosi e che attraggono l’attenzione dei media, nascondono una vastissima “zona d’ombra”, molto più ampia di quella rappresentata dai campioni, la quale non interessa i media e non fa parlare di sé, costituita essenzialmente dagli atleti amatoriali, dai componenti di squadre giovanili e dai frequentatori di molte palestre dove il culto della possanza muscolare è ancora purtroppo molto in voga.
Oltre alle sostanze chimiche e ai principi farmacologici che suscitano allarme per la loro notoria pericolosità, esistono molti altri preparati i quali vengono utilizzati con maggiore frequenza anche per via delle loro modalità più semplici d’impiego, come i diuretici che nelle cosiddette “diete rapide” vengono assunti per perdere acqua e con essa peso, oppure la caffeina sfruttata per le sue proprietà di accelerare il metabolismo e ingerita in gran quantità per consumare più velocemente calorie, finendo con il procurare stress e danni anche gravi ad organi come il cuore.
Esiste dunque anche un doping non sofisticato, oltre al doping degli atleti di livello superiore, un doping di sostanze semplici e alla portata di tutti e di tutte le tasche, un doping che aiuta a realizzare il proprio piccolo mito quotidiano, come quello della avvenente donna longilinea e dell’uomo muscoloso. È un tipo di doping che si è diffuso perché aiuta a vincere la sfida con il compagno di palestra, con gli amici delle lunghe uscite domenicali in bici e con … se stessi. Questo è anche il doping propagandato più spesso dai falsi profeti che promettono di diventare “forti, euforici, competitivi e senza sensazione di fatica”.
Se del doping degli sportivi di alto livello si occuperà la nuova agenzia Wada (vedere in altro capitolo), di tutti gli altri numerosi ed esasperati consumatori di farmaci o di altre sostanze più o meno sofisticate, si dovranno occupare gli educatori sportivi, i preparatori atletici, persino gli insegnanti di educazione fisica delle scuole nonché i mezzi di informazione.

Allenamento e sostanze “euforizzanti” prodotte naturalmente dall’organismo

Agli inizi degli anni ’70 i ricercatori che studiavano gli effetti analgesici centrali delle sostanze oppiacee di natura proteica (es. morfina) incominciarono a pensare che anche il corpo fosse in grado di sintetizzare sostanze analoghe, ovvero oppioidi di origine endogena. Furono di lì a poco isolate diverse molecole endogene, tra le quali le beta-endorfine (β-endorfine) di cui, tra l’altro, venne approfondito il ruolo e le funzioni durante l’attività fisica.
Si è venuto così a sapere che l’attività motoria aumenta i livelli nel sangue di beta-endorfine fino a oltre 5 volte rispetto al livello a riposo mentre la concentrazione all’interno del tessuto nervoso aumenta perfino di più.
Le attività sportive che aumentano maggiormente i livelli plasmatici degli oppioidi endogeni sono certamente i cosiddetti sport aerobici (corsa, ciclismo, nuoto, podismo) i quali aumentano la concentrazione plasmatica di queste sostanze soprattutto quando vengono eseguiti con sforzo di moderata intensità; invece negli sport di forza e potenza le β-endorfine aumentano in funzione della durata dell’esercizio e degli intervalli di recupero.
Le beta-endorfine inducono una sensazione diffusa di benessere e la inducono appunto anche dopo attività motoria, soprattutto se essa è stata di intensità media, come avviene nelle esercitazioni prolungate e graduali, un benessere ben noto a chi pratica con continuità lo sport e il movimento, un benessere che raggiunge un vero e proprio effetto euforizzante soprattutto negli allenamenti aerobici di una certa durata (almeno 50-60 minuti).
Le endorfine svolgono anche un ruolo nella tolleranza al dolore, riducono l’ansietà, controllano l’appetito, equilibrano gli stati di tensione nervosa.
Questi sono solo alcuni degli aspetti correlati alle reazioni benefiche che l’attività fisica “pulita” può indurre nell’organismo umano. E anche in funzione di queste considerazioni che il doping va combattuto e va combattuto anche attraverso una informazione precisa e scientificamente corretta, in opposizione a tutti i luoghi comuni che i “mercanti di prodotti intossicanti e di falsità” riescono a inculcare con facilità nella mente di tanti sportivi, sfruttando spesso il discorso “… non si può ottenere in un altro modo”.

Gravi danni del doping

L’enfasi con cui diffusamente si parla di certe prestazioni sportive, associata alla ammirazione ed alla emulazione che suscitano i modelli corporei muscolarmente superdotati fa si che, soprattutto da parte degli utilizzatori di sostanze dopanti, vengano trascurati o completamente dimenticati i gravissimi danni che tale utilizzo può comportare.
Un “addetto ai lavori” il quale, pentitosi di aver contribuito alla diffusione e al consumo di sostanze dopanti, aveva invertito direzione impegnandosi nel sensibilizzare i ragazzi sui pericoli del doping, disse una volta: ” … è difficile convincere i giovani dopati sui rischi che corrono poiché l’euforia di sollevare tanti chili in palestra e di non sentirsi stanchi, fa superare loro certe paure e ignorare certe precauzioni.” La distinzione dalle droghe vere e proprie è quindi davvero sottile.
Le sostanze o le classi di sostanze dopanti sono fra loro nettamente diverse ma alla fine gli esiti, immediati o ritardati, sono quasi sempre devastanti: dai danni gravi all’ipofisi da parte degli anabolizzanti, agli insulti esercitati sulle cellule nervose da parte degli stimolanti come le anfetamine o la caffeina somministrata in grandi dosi.
La pompa cardiaca è quella che viene stressata maggiormente: il cuore deve far fronte a richieste di prestazioni che progressivamente lo affaticano, esso deve provvedere a masse muscolari molto più estese del normale, con incremento enorme dei carichi di lavoro, anche a motivo di un sangue che risulta molto più denso e viscoso a causa del doping ematico. Certamente, un cuore giovane può sopportare meglio la sovrastimolazione, almeno immediatamente, ma col tempo i danni non potranno che manifestarsi anche nei giovani sotto forma di gravi patologie come l’ischemia miocardica e l’infarto.
Lo stesso problema dei danni sia immediati che ritardati riguarda il fegato, il quale metabolizza la maggior parte delle sostanze, nella sua funzione di depuratore ematico e viene pertanto progressivamente intossicato, con gravi conseguenze per la sua integrità.
Le patologie epatiche di più frequente riscontro nel doping, così frequenti da aver talora interessato perfino intere squadre nazionali, a causa delle emotrasfusioni, sono state le epatiti, ma vi sono da segnalare anche le epatopatie provocate da depositi in eccesso di ferro, e le forme tumorali associate all’abuso di anabolizzanti, di somatotropina e di ACTH.
Anche lo stomaco può essere coinvolto con una certa frequenza, per cui gastriti e ulcere gastriche e duodenali sono non rare patologie osservate nei soggetti dopati.
L’assunzione di amfetamine, soprattutto per quello che viene definito il “doping” estetico del dimagrimento, può comportare gravi irregolarità nei processi metabolici.
Frequenti e numerose sono anche le disfunzioni renali gravi indotte dal doping e le statistiche dicono che sono molti fra gli ex campioni o gli ex atleti professionisti quelli a dover ricorrere precocemente alla dialisi. Inevitabilmente, anche l’apparato scheletrico, il quale viene sottoposto oltre misura a sollecitazioni anomale, viene aggredito da processi degenerativi e di invecchiamento precoce. I tendini vengono sollecitati da muscoli abnormi e le rotture tendinee nonché le infiammazioni croniche delle strutture legamentose sono spesso imputabili agli abusi di anabolizzanti o di sostanze come il cortisone che mascherano i sintomi della fatica e dell’infiammazione. Vi è anche da sottolineare, riguardo l’apparato muscoloscheletrico, il ruolo patogeno della somatotropina la quale facilita la decalcificazione ossea, con conseguente osteoporosi . Anche i testicoli pagano un grave tributo al doping; infatti, gli anabolizzanti svolgono una azione inibente sul trofismo testicolare che può spingersi fino all’atrofia dei tessuti. Nelle donne l’assunzione di anabolizzanti induce irregolarità mestruali e induce una accentuazione delle caratteristiche somatiche maschili. Evidente cambio dei caratteri somatici si osserva anche con la somministrazione dei vari tipi di ormone della crescita (GH) il quale, da principio terapeutico impiegato per alcune forme di nanismo, è diventato uno dei più utilizzati prodotti dopanti, al pari dell’EPO. Oltre all’incremento delle masse muscolari, si riscontra l’ispessimento delle ossa mandibolari e un anomalo accrescimento delle ossa delle mani e dei piedi.
Ben diverso appare invece il ruolo di integratori fisiologici e di sostanze a documentata attività antiossidante, certamente utili in soggetti che vanno incontro ad una iperproduzione di forme radicaliche libere dall’ossigeno (ROS) connesse con l’attività fisica. Di queste tratteremo ampiamente al capitolo successivo.

Miti dello Sport e doping

I giovani hanno bisogno di punti di riferimento, di modelli educativi a cui ispirarsi e, perché no, di miti, ovvero di personaggi che in un qualche modo possano far sognare chi sta preparandosi alla vita “da grande” e che possano fungere da esempio da imitare. Lo sport ha da sempre offerto figure mitiche che potevano interpretare questi ruoli.
I mitici Coppi e Bartali, la splendida corsa di Berruti alle Olimpiadi di Roma, i goal di Pelè e molti altri esempi sono parte ancora viva della memoria e dell’immaginario personale e collettivo di intere generazioni, soprattutto quelle che hanno vissuto quando il tempo scorreva meno freneticamente e quando gli interessi economici e politici nello sport rivestivano minore importanza.
Il mito odierno è sempre più mito di pochi momenti, intensamente celebrato ma rapidamente dimenticato e, purtroppo, ad ogni grandissima prestazione sportiva si accompagna sempre più spesso il veleno del sospetto, il dubbio che sminuisce il sentimento e il valore di quel momento di entusiasmo.
Fu un momento di grande eccitazione la vittoria di Ben Johnson sui 100 metri, segnata da un clamoroso record mondiale che in altri momenti avrebbe potuto accendere la fantasia di tutti gli appassionati di sport. Ben Johnson era l’uomo più veloce del mondo. Erano le Olimpiadi di Seul del 1988 e nel giro di poche ore il record divenne “scandalo”. L’atleta di colore passò rapidamente dal podio alla vergogna e non aveva nemmeno più senso parlare del secondo arrivato come del vincitore della gara.
Quello che il doping ha fatto e continua a fare allo sport è un danno incalcolabile.
Dieci anni dopo, nell’estate del 1998, dando credito a voci insistenti sul doping nel ciclismo, le autorità competenti fermarono senza preavviso al Tour de France, la famosa competizione ciclistica a tappe, un massaggiatore di una squadra di prestigio, la Festina, il quale guidava una autovettura carica di prodotti dopanti. L’intera squadra venne espulsa dalla competizione e rimandata a casa. Fu molto triste guardare sui giornali e i settimanali di allora le fotografie dei ciclisti che prima grondavano sudore pedalando su e giù per i Pirenei col viso segnato da grandi maschere di fatica e poi venivano circondati dai gendarmi che presidiavano la corsa.
Nel 2001 i tifosi dovettero assistere alla replica dello scandalo doping in un’altra prestigiosa competizione ciclistica internazionale: questa volta il caso scoppiò al Giro d’Italia ed è ancora vivo in noi il ricordo della Magistratura che, a seguito di perquisizioni còndotte nella ormai tristemente famosa tappa di Sanremo, avviò inchieste che coinvolsero nomi di campioni dal mito consolidato. Della storia di Marco Pantani, della sua squalifica di Madonna di Campiglio, della sua recente morte non è il caso di aggiungere altro a quanto la stampa ha già scritto. La sua è la storia di un altro grande campione che ha pagato a caro prezzo la trasgressione alla fedeltà dei principi sportivi, è la storia di un altro mito infranto, è la storia di un altro atleta che si è fatto convincere che in un ciclismo professionale, dove si deve correre sempre più forte per abbattere il muro dei record, trova giustificazione il ricorso ad un “aiuto”. Qualcuno addirittura usa la parola “non negativo” per designare chi viene trovato positivo al controllo antidoping, deresponsabiizzando, prima ancora che depenalizzando o addirittura assolvendo chi fa uso di sostanze dopanti; ma, dal dicembre 2002, esiste in Italia una legge che ha trasformato ogni forma di doping in un vero e proprio reato penale: è la legge è n° 376, di cui si è già detto altrove. La legge 376 dice che sono penalmente punibili i tecnici, i medici, i procacciatori di sostanze proibite ma anche gli atleti, in prima persona.
La Lista delle sostanze proibite è quella predisposta dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale) anche se ci sono alcune Federazioni di alcuni sport che hanno compilato liste e regolamenti a volte differenti da quello del CIO. A questa disomogeneità di normative dovrebbero ovviare i nuovi regolamenti e codici dell’agenzia mondiale WADA che dovrebbe portare ad una armonizzazione delle regole sportive, soprattutto nello sport professionale.

Dalle sostanze naturali al doping

INTRODUZIONE

La caratteristica fondamentale dell’organismo umano è quella di mantenere costante l’omeostasi ovvero l’equilibrio dei suoi sistemi interni (calorico, energetico, endocrino, ecc.), per cui la alterazione di tale equilibrio può comportare l’insorgenza di un evento morboso. Tutti i sistemi di regolazione cellulare e fra i vari tessuti sono organizzati in modo da reagire immediatamente a svariati tipi di sollecitazione quali lo stress e l’esercizio fisico. Le risposte dell’organismo a questo genere di sollecitazioni prevedono: a) l’attivazione o l’inibizione dei sistemi enzimatici, b) la stimolazione della sintesi o il rilascio di particolari componenti (recettori, ormoni, neurotrasmettitori, ecc.), c) l’intensificazione degli scambi e delle attività correlate fra i tessuti.
Un esempio di tale meccanismo omeostatico è rappresentato dalla risposta dell’organismo alla somministrazione esogena di un ormone normalmente prodotto da esso: la ghiandola endocrina che lo secerne ne riduce la sintesi potendo perfino giungere alla inibizione totale della sua attività e determinare una ipofunzione del sistema endocrino di cui è componente integrata e di regolazione, con gravi conseguenze per l’intero organismo.
La cellula muscolare scheletrica, diversamente dalle altre cellule degli organismi superiori, è la sola che sia totalmente sotto il controllo della volontà, tutte le altre cellule, compresi gli eritrociti, conservano almeno in parte una certa libertà nel movimento o nella funzione.
La fibra muscolare è obbligata a rispondere agli impulsi nervosi volontari secondo un modello di risposta definito del “tutto o nulla”, perché non le è data capacità intrinseca di poter modulare il proprio comportamento nella forma o nell’intensità, pertanto essa si contrae e si rilascia in diretta funzione della volontà. Questa dipendenza, senza alcun fattore di modulazione che possa ammortizzare le stimolazioni, favorisce l’insorgenza di conseguenze negative e· patogene per il muscolo quali: 1) l’esaurimento delle sue riserve, 2) la fragilizzazione della sua struttura e 3) la sua distruzione più o meno rapida.
La fatica muscolare che si manifesta negli sportivi con dolori, crampi, liberazione delle proteine citoplasmatiche in circolo, aumento della lattacidemia e dell’ammoniemia ed altro, costituisce un segnale dell’avvenuto danno alla fibra muscolare ed il preludio alla sua distruzione, ma in alcuni casi essa può essere interpretata come un sistema regolatore suscettibile di affermare la propria autonomia.
Il segnale della fatica, infatti, si sviluppa a livello della “centrale di comando”, nel SNC, assumendo due forme biochimicamente antagoniste: 1) la liberazione di endorfine e cortisolo da una parte e 2) l’aumento della ammoniemia e della glutamina dall’altra. Dalla integrazione di questi effetti attivatori e inibitori dipende lo sviluppo della sensazione della fatica, e di conseguenza l’arresto o la prosecuzione dell’esercizio fisico.
Nei soggetti allenati, l’organismo sviluppa dei meccanismi di protezione capaci, durante la ripetizione seppur prolungata dell’esercizio, di limitare i fattori di rischio di danno corporeo secondari allo stress. Ad esempio, il “metabolismo fosfocalcico” (vitamina D, calcitonina, paratormone) viene attivato aumentando la densità dell’osso e rafforzandone la resistenza; il processo della coagulazione del sangue accelera la velocità di degradazione della fibrina per limitare il rischio tromboembolico; il sistema immunitario reagisce nel suo insieme per preservare l’organismo e distruggere le cellule muscolari morte; infine, la totalità degli “ormoni anabolici”, gonadici e non, risultano impegnati nel promuovere la muscolatura dello sportivo. L’accelerazione del metabolismo, tuttavia, se sostenuta conduce rapidamente ad un aumento della produzione di scorie e ad una perdita supplementare di sostanze indispensabili al buon funzionamento enzimatico. Nel primo caso il rene deve adattare la sua funzione emuntoria alle esigenze secondarie allo sforzo, nel secondo caso, invece, è l’apporto alimentare programmato dallo sportivo che deve tener conto delle perdite eccessive degli oligoelementi, delle vitamine, delle proteine e di altri componenti indispensabili al metabolismo nel suo complesso.
Quest’ultimo aspetto pone la questione della “reintegrazione” dei diversi elementi nutrizionali, che può avvenire sia attraverso l’alimentazione naturale dell’atleta che con specifiche integrazioni. L’integrazione dietetica, come lo stesso termine sottintende, non è altro che il ricorso a determinate sostanze che il nostro organismo consuma in misura superiore quando viene sottoposto ad esercizio fisico rispetto a quando riposa e che esso non è in grado di ripristinare adeguatamente senza una introduzione suppletiva.
A parte, potranno esserci soggetti particolari che potranno presentare necessità aggiuntive, in rapporto a stati carenziali specifici, ad attività sportive di elevato impegno fisico o condotte in ambienti straordinari, per i quali, dopo gli indispensabili accertamenti di laboratorio, sarà indispensabile il consulto del medico che consiglierà il comportamento più adeguato.
I dati fin qui espressi impongono due riflessioni. Innanzi tutto è fondamentale imparare ad alimentarsi in modo corretto, concetto valido per tutti ma che in misura maggiore deve essere colto da chi fa attività fisica, affinché l’apporto calorico giornaliero sia adeguato alle caratteristiche individuali, al tipo di sport praticato, alla durata, all’intensità ed alla frequenza degli allenamenti, nonché distribuito correttamente in relazione all’orario di allenamenti e gare.
In secondo luogo, è importante farsi seguire dal proprio medico di fiducia, affinché nulla sia lasciato all’improvvisazione. Infatti, la notevole disponibilità di integratori alimentari che, in quanto tali, sono liberamente venduti senza prescrizione medica, hanno generato molta confusione in ordine alla loro funzione ed efficacia ed in relazione alla posologia che spesso si basa sui consigli di amici, conoscenti o di altri sportivi. D’altra parte, per quello che concerne alcune sostanze considerate tuttora integratori alimentari, come ad esempio antiossidanti o creatina, non è sempre facile, in virtù delle quantità non proprio modeste che possono essere consumate, stabilire un netto confine tra lecito e doping, perciò esse vengono ammesse e tollerate ma non è detto che in futuro, in conseguenza di nuove evidenze, esse non potranno essere assoggettate a normativa specifica.

Integrazione e supplementazione

Quando si parla di integrazione e di supplementazione alimentare ci si riferisce, in tutti i casi, a sostanze naturali, presenti fisiologicamente nell’organismo e introdotte di norma con la dieta. Come detto, l’apporto alimentare abitudinario può risultare insufficiente o non adeguato in relazione allo svolgimento dell’attività sportiva, soprattutto durante il corso di competizioni impegnative e nella successiva fase di recupero. L’integrazione può costituire pertanto una effettiva necessità, dotata di una sua giustificazione nonché di una sua efficacia, ma può anche rappresentare una fonte d’insidia, una “zona grigia” da non sottovalutare quando si affronta e si combatte il fenomeno del doping, in quanto il confine tra integrazione lecita ed illecita è assai sottile, tanto da risultare estremamente difficile la sua definizione.
Secondo la normativa del Ministero della Salute (G.U. 297/02), tra i prodotti dietetici sono compresi gli alimenti adattati ad un intenso sforzo muscolare, soprattutto per gli sportivi, e comprendono:
a) prodotti finalizzati alla integrazione energetica: fruttosio, maltodestrine, vitamine B1-B2-B6-PP e C; l’apporto energetico non deve essere inferiore a 200 Kcal per porzione; l’apporto di vitamine deve rappresentare una quantità pari almeno al 30% della dose di assunzione giornaliera raccomandata (RDA);
b) prodotti contenenti minerali per reintegrare le perdite idrosaline (sodio: non più di 45 mEq/l corrispondenti a 1035 mg/l; cloro: non più di 36 mEq/l corrispondenti a 1278 mg/l; potassio: non più di 7,5 mEq/l corrispondenti a 292 mg/l; magnesio: non più di 4,1 mEq/l corrispondenti a 50 mg/l);
c) prodotti per l’integrazione proteica: l’apporto totale di proteine (dieta più integratore) non deve essere superiore a 1,5 g/die/kg peso corporeo e deve essere presente la vitamina B6 in quantità non inferiore a 0,02 mg/g di proteine;
d) prodotti finalizzati all’integrazione di aminoacidi e derivati: per gli aminoacidi ramificati, la quantità di assunzione giornaliera non deve essere superiore a 5 g (come somma dei tre aminoacidi ramificati) ed è consigliabile associarli con vitamine B1 e B6 il cui apporto deve essere pari almeno al 30% della RDA. Gli aminoacidi essenziali e non essenziali devono essere presenti in idonee proporzioni tra loro;
e) altri prodotti con valenza nutrizionale, adattati ad un intenso sforzo muscolare;
f) combinazione dei suddetti prodotti.

Integratori Alimentari

La definizione di integratore alimentare secondo la Direttiva 2002/44/CE è la seguente:

Integratori alimentari sono i prodotti alimentari destinati ad integrare la dieta normale e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico“. Rivolgiamo la nostra attenzione, adesso, alle “Linee Guida del Ministero della Salute su integratori alimentari e alimenti arricchiti“.
Le linee guida ministeriali indicano quali sono le varie categorie di integratori che non possono essere considerati “dietetici” in quanto non sono concepiti per rispondere ad esigenze nutrizionali o condizioni fisiologiche particolari ed il cui impiego ha il solo scopo di ottimizzare gli apporti nutrizionali e di fornire sostanze nutrizionali con effetto protettivo o trofico sui tessuti e per migliorare il metabolismo e le funzioni fisiologiche dell’organismo.
Essi sono: 1) integratori di vitamine e/o minerali, 2) altri fattori simil-vitaminici, 3) altri fattori nutrizionali, 4) aminoacidi, 5) derivati di aminoacidi di interesse nutrizionale, 6) integratori di proteine e/o energetici, 7) integratori per migliorare la prestazione sportiva, 8) integratori lipidici, 9) integratori biologico-vitaminici, 10) estratti ghiandolari d’organo, 11) enzimi, 12) integratori di fibra, 13) integratori per dimagrire, 14) complementi vegetali come ingredienti negli integratori alimentari.
Nella tabella seguente è riportato l’apporto massimo giornaliero degli integratori.

Una classificazione metabolica degli integratori è riportata nella tabella seguente, dove sono suddivisi in rapporto alla loro funzione: a) energetici, in quanto favoriscono, direttamente o indirettamente, i processi di produzione dell’ATP, moneta degli scambi energetici cellulari; b) antiossidanti, per la loro capacità di limitare la quantità di radicali liberi; c) sostanze plastiche responsabili dello sviluppo della massa muscolare.

INTEGRATORI E SUPPLEMENTI NELLA PRESTAZIONE SPORTIVA

ENERGETICI

  • Glucidi
  • Aminoacidi (AA)
  • AA a catena ramificata (BCAA)
  • Glutamina
  • Creatina
  • Carnitina
  • Lipoato
  • Ubidecarenone (coQ)
  • Ferro

ANTI-OSSIDANTI

  • Vitamina E
  • Vitamina C
  • N-Acetilcisteina
  • Beta-Cherotene
  • Aspirina
  • Selenio
  • CoQ
  • Lipoato
  • Carnosina
  • Glutatione
  • Melatonina

SOSTANZE PLASTICHE (SVILUPPO MUSCOLARE)

  • Proteine
  • Aminoacidi
  • BCAA
  • Ornitina-chetoglutarato (OKG)
  • Creatina
  • Inosina
  • Beta-Idrossi-Beta-Metilbutirrato (HMB)
  • Vitamina B12
  • Sali minerali
  • Cromo

Alcuni metaboliti possono svolgere più di una funzione, e ciò può risultare particolarmente gradito agli sportivi. Di qui il pericolo in relazione a quella “zona grigia” in cui si può scivolare facilmente dalla integrazione con questi composti al loro abuso, nella speranza di migliorare le proprie prestazioni, senza impegno, senza sacrificio e senza allenamento.

Glucidi

I glucidi sono la fonte principale di energia per l’organismo. Si dividono fondamentalmente in tre categorie: 1) Monosaccaridi o zuccheri semplici (glucosio, frurtosio, galattosio). 2) Disaccaridi (saccarosio, lattosio e maltosio) formati da due monosaccaridi legati fra di loro. 3) Polisaccaridi o glucidi complessi, come amidi, maltodestrine, cellulosa, pectine e glicogeno, costituiti da molti monosaccaridi legati fra loro.
La velocità con cui i glucidi vengono assimilati viene espressa dall’indice glicemico. Più l’indice glicemico è alto più il glucide viene assorbito velocemente e, a parità di dose, alza più rapidamente la glicemia inducendo conseguentemente la secrezione pancreatica di insulina. La somministrazione di glucidi può essere utile prima, durante e al termine di una prestazione fisica.

Prima di una prestazione

Fino a 60- 90 minuti prima dell’inizio può essere utile l’assunzione di una piccola dose di carboidrati a basso indice glicemico, il cui assorbimento, avvenendo lentamente, non provocherà uno sbalzo della glicemia a riposo. Al posto di un “integratore” a basso indice glicemico è utile mangiare un frutto (ricco di fruttosio e acqua) mentre è sconsigliato assumere zucchero semplice (glucosio) prima di uno sforzo perché non serve e può viceversa alterare negativamente il rendimento.

Durante lo svolgimento di una prestazione

È utile associare l’assunzione di carboidrati ad alto indice glicemico a quella di acqua e sale, necessaria per il reintegro idrosalino. La presenza di carboidrati ad alto indice glicemico (glucosio o maltodestrine) facilita l’assorbimento dell’acqua, a condizione che la concentrazione resti compresa tra il 4 e l’8%: in termini pratici questo significa 40-80 grammi di carboidrati per litro di acqua; tuttavia, bisogna stare attenti a non superare l’assunzione di 60 grammi per ogni ora di attività fisica. L’assunzione dovrà avvenire inoltre diluita nel tempo: non essendo possibile da un punto di vista pratico un’assunzione continua, occorre cercare di frazionare l’introduzione della bevanda zuccherina ogni 10-15 minuti circa.

Al termine di una prestazione di lunga durata

Le riserve di glicogeno muscolare si sono ridotte, è quindi utile un’assunzione differenziata di glucidi al fine di ripristinare tali scorte; in questo caso l’uso di integratori appare poco opportuno, essendo più corretta una adeguata introduzione di alimenti. I glucidi ad alto indice glicemico possono essere assunti subito dopo la prestazione sportiva ma in piccole dosi perché le funzioni digestive dopo una attività fisica prolungata permangono rallentate per qualche ora, pertanto, è più agevole utilizzare questo tipo di carboidrati, in modo da fornire rapidamente glucosio al muscolo ancora metabolicamente attivo (saldo del debito di ossigeno) senza peraltro richiedere uno sforzo digestivo. I glucidi a medio-basso indice glicemico sono più adatti tardivamente, nel successivo primo pasto completo, quando le funzioni digestive sono riprese completamente; la quantità da ingerire deve essere calcolata in funzione del fabbisogno calorico dell’atleta: pastasciutta, riso, pane, patate, legumi, ecc.

Proteine

Nel soggetto sedentario il fabbisogno proteico è di circa 0,7-1,0 g/kg peso corporeo/die, per un apporto energetico totale di 200-280 cal/die per un individuo di 70 kg.
Per valutare il consumo proteico negli atleti è necessario considerare tre parametri i quali interagiscono fra loro: a) il grado di allenamento, b) il fabbisogno energetico totale e quello di proteine, c) l’intensità dell’esercizio.
Per gli atleti che si allenano quotidianamente con regolarità, l’apporto proteico giornaliero consigliato per compensare il consumo supplementare di aminoacidi (anabolismo, consumo energetico) è di 2-3 g/kg di peso corporeo. Se, infatti, il contributo proteico al metabolismo energetico è normalmente di importanza secondaria, in corso di attività fisica il catabolismo proteico è esaltato, soprattutto a livello epatico e per le proteine muscolari non contrattili. L’utilizzazione degli aminoacidi cresce nel corso dell’esercizio di intensità medio-elevata, soprattutto in condizioni metaboliche di deplezione glucidica, fino a coprire circa il 15% dell’energia totale necessaria.
Dopo esercizi di intensità elevata e di lunga durata, anche le proteine muscolari contrattili vengono degradate, nella fase di recupero successiva all’attività. L’inibizione della sintesi proteica è inversamente correlata all’intensità e alla durata dell’esercizio ed al tasso di glicogeno muscolare ed epatico.

Proteine plasmatiche ed esercizio fisico

Durante l’esercizio fisico, la concentrazione delle proteine plasmatiche aumenta per diverse ragioni, tra le quali la liberazione di proteine da parte del fegato e dalle zone vascolari a bassa produzione, la disidratazione e il passaggio di acqua dal plasma verso i muscoli responsabili di una emoconcentrazione e la liberazione nel plasma di proteine intracellulari (LDH, transaminasi, CPK, aldolasi …).
Dopo l’esercizio, la massa proteica vascolare aumenta di circa i g per 15 ml di acqua.

Proteine strutturali ed esercizio fisico

Le proteine rappresentano il 12-15% della massa corporea di un soggetto adulto, con cospicue variazioni nei diversi organi e nei diversi tipi di cellula: ad esempio nel neurone la quantità di proteine può essere inferiore al 10% mentre nelle cellule muscolari essa può raggiungere il 20%.
I due terzi delle proteine strutturali corporee sono situate nel tessuto muscolare dove costituiscono il 75% del pool degli aminoacidi dell’organismo. Il rinnovo di queste proteine è influenzato dall’attività fisica la quale accelera sia i processi di catabolismo (durante l’esercizio) che di anabolismo (dopo l’esercizio, durante la supercompensazione).

1 – Catabolismo. Il catabolismo proteico è un meccanismo fisiologico indotto dall’esercizio muscolare, sia esso passivo o attivo (esiste una somma dei due effetti), è in parte dettato dai bisogni energetici dell’organismo (circa il 10% del consumo di ossigeno può essere destinato a questo compito) ed è seguito da una supercompensazione che è all’origine dei processi del culturismo.
La proteolisi muscolare avviene a spese delle proteine fibrose e sarcoplasmatiche per intervento di proteasi lisosomiali attivate dal cortisolo, da un aumento del calcio citosolico e dall’acidosi locale. La liberazione di 3metilistidina (3-mH) è un buon indice del catabolismo delle proteine contrattili muscolari, ed è proporzionale alla massa muscolare, in quanto non può essere degradata o reincorporata nel tessuto muscolare stesso. Durante l’esercizio, anche la quantità di tirosina rilasciata dal muscolo, la quale è invece indice del catabolismo delle proteine non contrattii, è molto aumentata (20-50%) e ritorna ai valori basali nelle ore che seguono il termine dell’esercizio.
La maggior parte degli aminoacidi ossidati dal muscolo durante l’esercizio derivano dalle proteine strutturali, soprattutto muscolari ed epatiche, mentre derivano solo in minima parte da quelle plasmatiche (albumina): il soggetto non allenato consuma essenzialmente proteine di origine epatica, mentre lo sportivo catabolizza soprattutto proteine muscolari.
La quota energetica dovuta alla utilizzazione delle proteine rappresenta il 12-15 % del totale dell’energia spesa, con variazioni dipendenti dalla durata dell’esercizio, dal tipo di pratica sportiva, dall’intensità dell’esercizio, dallo stato ormonale del soggetto, dell’apporto alimentare, dell’allenamento. Il catabolismo di base (12 g/h) è aumentato durante l’esercizio (18 g/h) e resta elevato per diverse ore dopo l’esercizio (16 g/h). Inversamente, la sintesi proteica di base (15 g/h) è diminuita durante l’esercizio (13 g/h) e aumentata dopo l’esercizio (17 g/h). Durante una maratona vengono consumati più di 50 g di proteine (questa cifra è da confrontare con i 70 g/die di un soggetto sedentario), e rappresentano più del 10% dell’energia fornita. I soggetti ben allenati aumentano significativamente le loro capacità di degradare le proteine e di utilizzare gli aminoacidi a livello muscolare; ma se si supera una certa soglia, la risintesi proteica post-esercizio viene frenata, e il catabolismo prevale sull’anabolismo (superallenamento).

2 – Anabolismo. L’anabolismo proteico muscolare, particolarmente quello dell’actina, è diminuito durante lo svolgimento di un esercizio che duri almeno 30 min. Questo fenomeno, poco importante per esercizi di bassa intensità, si accentua per gli esercizi più intensi. La diminuzione dell’anabolismo permane stabile durante l’esercizio, tuttavia se l’esercizio si prolunga per diverse ore la cellula muscolare frena ulteriormente il suo anabolismo.
Durante l’attività fisica l’anabolismo è diminuito per l’azione del cortisolo e in rapporto diretto alle basse concentrazioni di glicogeno; al termine dell’esercizio l’anabolismo resta basso per un certo tempo, in funzione del tipo di attività svolta, mentre alcune ore dopo la velocità di sintesi aumenta e supera quella di base. I fabbisogni proteici sono influenzati da diversi fattori quali l’età, il sesso, le richieste energetiche, la contemporanea situazione metabolica dei glucidi, i precedenti livelli di assunzione delle proteine, le modalità e il livello di allenamento, il tipo, la durata e l’intensità dell’esercizio, la perdita di proteine tramite il sudore e l’emolisi dei globuli rossi.
Dopo un periodo di allenamento, se il muscolo lavora ad intermittenza con carichi significativi, si osserva un effetto anabolico con la stimolazione della sintesi delle proteine delle miofibrille che supera il catabolismo proteico muscolare. Se invece il muscolo lavora ritmicamente con carichi moderati e per periodi di tempo prolungati (esercizio di endurance), dopo un periodo di allenamento, il risultato è un incremento della sintesi delle proteine dei mitocondri (enzimi e proteine strutturali) e non delle miofibrille.
Il problema della supplementazione proteica nello svolgimento dell’attività fisica è stato ampiamente discusso e con posizioni anche controverse. Recentemente, da una revisione dei dati della letteratura, si è concluso che negli esercizi di potenza è raccomandabile un apporto di 1,7-1,8 g/Kg/dì il quale potrebbe aumentare lo sviluppo muscolare mentre ci sono poche evidenze che apporti superiori (>2g/Kg/dì), utilizzati dagli atleti di potenza, abbiano realmente effetti positivi. Anche negli esercizi di endurance si raccomanda un maggior apporto proteico (circa 1,4 g/Kg/dì), giustificandolo con un aumento della sintesi delle proteine mitocondriali, e con una maggiore ossidazione degli aminoacidi, proporzionale all’intensità e alla durata dell’esercizio. Questo effetto è probabilmente da attribuire alla ridotta disponibilità di glucidi quando l’esercizio si prolunga.
Gli effetti positivi della somministrazione di proteine nell’esercizio fisico si devono attribuire al rifornimento di aminoacidi per la sintesi proteica, all’utilizzo delle proteine e quindi degli aminoacidi come combustibile alternativo (come avviene nelle attività di endurance) e all’azione di stimolo da parte di alcuni aminoacidi assunti con la dieta, nel rilascio dell’ormone della crescita (GH) il quale stimola la sintesi proteica muscolare.
Diversi autori suggeriscono che la fase immediatamente dopo l’esercizio è il periodo migliore per accelerare la ricostruzione muscolare.
I supplementi proteici si presentano in tre forme: a) le proteine complete (caseina, la principale proteina del latte); b) gli idrolizzati proteici, che si ottengono sottoponendo le proteine all’azione degli enzimi idrolitici (proteasi) che le scindono in di-, tripeptidi ed aminoacidi singoli; e c) gli aminoacidi liberi, ottenuti dalla fermentazione di una base alimentare. Di queste tre forme, quella che appare più efficace sono gli idrolizzati proteici, in quanto i loro prodotti sono assorbiti più facilmente e sono responsabili della stimolazione del rilascio da parte del fegato della somatomedina C, fattore anabolico della crescita muscolare.
In relazione al sesso, le femmine utilizzano meno proteine negli sport di endurance, e in rapporto all’età, le richieste proteiche sono maggiori per i più anziani.
Gli effetti negativi della supplementazione proteica sono invece da attribuire a:

  • Aumentata perdita urinaria di calcio. Questo problema si riscontra solo con l’apporto di proteine purificate, perché l’alta concentrazione di fosfato presente nelle proteine degli alimenti protegge contro questo effetto.
  • Azione aterogenica di diete ad alto contenuto proteico per la loro associazione con l’assunzione di alte quote di lipidi. Questo effetto è sovrastimato in quanto le evidenze si riferiscono ad esperienze di forti associazioni fra proteine animali e colesterolo plasmatico negli animali da esperimento, conclusioni che non si possono applicare all’uomo.
  • Maggiore interesse concerne l’assunzione di grandi quantità di alcuni singoli aminoacidi, per le complicazioni che riguardano il loro assorbimento, gli squilibri metabolici e l’alterata attività dei neurotrasmettitori da loro determinati e talvolta la loro tossicità.

La somministrazione di supplementi misti glucidi-proteine, prima e dopo un esercizio di resistenza, è in grado di influenzare la risposta degli ormoni di tipo anabolico (insulina, GH, IGF-I) e ridurre la risposta catabolica acuta in un esercizio intenso.
L’aumento dell’insulina plasmatica può generare una cascata di effetti stimolatori sul rilascio di altri ormoni anabolici, come il GH e l’IGF-I. In aggiunta, l’insulina aumenta il contenuto tissutale di proteine e stimola direttamente l’assorbimento degli aminoacidi per la sintesi proteica nel muscolo. In effetti, è stato dimostrato che la somministrazione di supplementi glucidici e proteici favoriscono la crescita e lo sviluppo muscolare aumentando le concentrazioni plasmatiche di GH e insulina nella fase del recupero. Le risposte del GH e della prolattina erano molto più alte nel primo giorno dopo la supplementazione; i livelli del testosterone, dopo l’esercizio, erano al di sotto dei valori normali durante la supplementazione; anche i livelli del cortisolo erano considerevolmente diminuiti, ma solo nel secondo e terzo giorno; infine i livelli di insulina e IGF-I erano significativamente più alti dopo supplementazione. Questi risultati indicano una regolazione degli ormoni da parte dei nutrienti, in modo tale da portare a un più favorevole bilancio dell’azoto e dei livelli di glicogeno fra le sedute di allenamento. Anche la somministrazione di un supplemento costituito da glucoso e aminoacidi, durante la fase di recupero dopo l’esercizio, aumenta la sintesi proteica e permette di invertire il bilancio netto delle proteine da negativo a positivo.

Aminoacidi

In un uomo adulto di 70 Kg, il pool degli aminoacidi (AA) liberi rappresenta 121.5 g. L’80% degli AA sono localizzati nel muscolo scheletrico e il restante 20% si ripartisce tra il fegato ed il sistema circolatorio. Il muscolo è il principale fornitore di AA per la gluconeogenesi durante il digiuno (tirosina) o l’attività muscolare (alanina). A riposo, gli AA ossidati sono essenzialmente la glutamina e l’alanina. In questo stato, solo sei AA sono ossidati in modo significativo dal muscolo: asp, glu, val, leu, ileu, ala; è da sottolineare la grande attività della transaminasi muscolare specifica per gli AA a catena ramificata. Il cervello è un grande consumatore di AA a catena ramificata (leu, ileu e soprattutto val): esso è certamente il maggior consumatore di valina dell’organismo. Durante l’esercizio, gli AA aromatici sono captati in grande quantità per la sintesi delle amine. Il fegato è capace di utilizzare quasi tutti gli AA ad eccezione di quelli a catena ramificata, ma a riposo i più utilizzati sono la glicina e l’alanina, derivati dal muscolo e la serina proveniente dal rene. Il rene è il principale fornitore di serina; libera ugualmente dell’alanina formata a partire dalla glutamina. Egli capta grandi quantità di glutamina e forma glutamato dopo la liberazione di un NH3 , o del chetoglutarato dopo la liberazione di due NH3. L’intestino, consumatore di alanina e soprattutto di glutamina che trasforma in parte in alanina, ceduta poi al fegato, capta la serina.

Aminoacidi ed Esercizio Fisico

– Origine degli aminoacidi

Durante l’esercizio fisico gli AA degradati dal muscolo sono derivati dal catabolismo proteico muscolare, epatico e splancnico, dal pool degli AA liberi e delle proteine circolanti. La produzione degli AA da parte del fegato può aumentare del 200-300% rispetto alla concentrazione basale, quando l’esercizio praticato è di tipo “endurance”. A livello della milza, l’esercizio determina la fuoriuscita degli AA a catena ramificata.

– Aminoacidiplasmatici

Durante la prima parte di un esercizio prolungato, la concentrazione degli AA liberi può aumentare nel plasma, nonostante la diminuzione di un certo numero di essi. Questo aumento è soprattutto a carico degli AA a catena ramificata, della tirosina e della fenilalanina. Al di là di una certa durata, la concentrazione plasmatica di AA tende a diminuire. L’ipoinsulinismo, generato dall’esercizio muscolare, accompagnato dall’ipercortisolemia inducono una degradazione delle proteine muscolari e liberano localmente quantità importanti di AA a catena ramificata. Nonostante che la velocità di circolazione degli AA a catena ramificata aumenti, la loro concentrazione plasmatica può diminuire a causa della loro penetrazione nel muscolo. In generale, durante l’esercizio fisico il ricambio degli AA a catena ramificata è poco modificato, in quanto l’aumento dell’incorporazione muscolare si trova controbilanciato da una minore utilizzazione da parte degli altri tessuti. Il muscolo può moltiplicare di trenta volte il suo metabolismo energetico durante l’esercizio.
L’utilizzazione degli AA a catena ramificata aumenta per soddisfare i bisogni energetici locali ma aumenta in proporzioni minori di quelle degli altri substrati (acidi grassi, glucosio).
Per quanto attiene al ruolo e significato della utilizzazione degli aminoacidi occorre tener presente il ruolo svolto dall’intestino. Gli aminoacidi, non il glucosio, sono il maggior combustibile della mucosa intestinale. La maggior parte della glutamina, e quasi tutto il glu ed asp, e quote variabili dal 30 al 60% di ser, gly, arg, pro, va, leu, ileu, lys e phe della dieta non entrano nella circolazione portale e non sono disponibili per i tessuti extra-intestinali. Oltre che essere utilizzati come combustibile ed entrare nella sintesi proteica, essi possono fornire precursori per la sintesi di: nucleotidi purinici e pirimidinici, glutatione, prolina, ornitina, citrullina, e secondariamente alanina, poliamine ed NO. Quindi il contenuto degli AA della dieta differisce significativamente da quello del sangue venoso portale e non riflette la loro disponibilità per i tessuti extra-intestinali. Ciò ha importanti implicazioni per la supplementazione con aminoacidi e proteine.
Infatti, il catabolismo degli aminoacidi nell’intestino determina una diminuita efficienza nutrizionale, a causa anche del ruolo dei fattori (GH, IGFI o diabete) che influenzano la massa intestinale e che possono avere un effetto importante sulla richiesta degli AA della dieta. Inoltre le variazioni nello sviluppo, le alterazioni fisiopatologiche e le differenze individuali e di specie nel catabolismo degli AA, sono fattori che debbono essere presi nella massima considerazione nel definire i modelli in vivo del metabolismo degli AA e delle proteine.
La maggior parte della glutamina, e quasi tutto il glutamato ed aspartato della dieta, non entrano nella circolazione portale e non sono disponibili per i tessuti extraintestinali. La serina e la glicina della dieta possono essere catabolizzati dalla mucosa intestinale per la sintesi di nucleotidi purinici e pirimidinici e di glutatione.

FIGURA 1

Ruolo metabolico degli aminoacidi a catena ramificata (BCAA)

La massima capacità ossidativa dei BCAA (valina, leucina, isoleucina) si ritrova nel muscolo e fegato.
L’ossidazione dei BCAA muscolari è correlata alla produzione di glutamina, per smaltire l’eccesso di ammoniaca senza privare il ciclo di Krebs dei suoi intermedi.
La leucina stimola la sintesi proteica e inibisce la degradazione delle proteine mentre il chetoacido della leucina inibisce la proteolisi in quanto è in grado di inibire la sintesi dei glucocorticoidi.
Gli effetti della supplementazione dei BGAA nell’attività fisica sono: a) migliorata vigilanza durante l’esercizio, b) aumento della concentrazione plasmatica di gluramina, c) diminuzione della degradazione proteica nel muscolo scheletrico durante l’attività fisica, d) aumentata ossidazione della leucina, nella prima ora di esercizio e nella fase di riposo, per una maggiore disponibilità di substrato, e) aumento delle concentrazioni di cataboliti della leucina che provocano una diminuzione della proteolisi muscolare.
In conclusione, la supplementazione con aminoacidi a catena ramificata durante lo svolgimento di un esercizio fisico nell’uomo presenta ancora alcuni problemi, tuttavia, essa diventa molto interessante alla luce delle più recenti indicazioni sul metabolismo degli aminoacidi, che spostano l’attenzione da un loro possibile ruolo come combustibili ad un loro coinvolgimento in molteplici funzioni di controllo e di regolazione.
Per la loro capacità di contrastare il passaggio di triptofano nel cervello e per la loro attività “tampone” nei confronti dell’acidosi metabolica, una somministrazione di aminoacidi a catena ramificata prima di un impegno fisico intenso e protratto può risultare utile nell’ostacolare “l’appannamento” mentale da affaticamento. BCAA e triptofano (TRP) utilizzano lo stesso “trasportatore” per raggiungere il cervello. Durante l’esercizio fisico il muscolo richiama i BCAA dal sangue e questo calo rende più agevole il passaggio del TRP nel cervello.
Nel cervello il TRP viene trasformato in serotonina, un neurotrasmettitore implicato nel meccanismo dell’affaricamento; aumentando la quota di serotonina in circolo aumenta il grado di appannamento ed affaticamento di origine centrale.
Per la loro capacità inoltre di impedire il calo dei livelli di glutamina plasmatica che avviene durante uno sforzo fisico intenso, il ricorso ad una loro somministrazione regolare risulta indicata durante i periodi di allenamento intenso, quando l’atleta aumenta i carichi di lavoro e i rischi di una sindrome da sovrallenamento.
La loro assunzione deve avvenire circa 60 minuti prima dello sforzo ed occorre fare attenzione nella scelta degli integratori a base di BCAA: tutti gli studi scientifici che hanno dimostrato la validità del loro impiego sono stati eseguiti somministrando preparati che contenessero leucina, isoleucina e valina nel rapporto ottimale di 2:1:1, che è quello consigliato dagli organismi scientifici internazionali, leucina: 40 mg/kg/die;isoleucina: 23 mg/kg/die; valina: 20 mg/kg/die.
Quindi, non è sufficiente che gli integratori contengano i tre aminoacidi leucina, isoleucina e valina, ma è necessario che i loro quantitativi siano nel rapporto ottimale di 2 : 1 : 1.
Il fabbisogno giornaliero raccomandato ammonta in totale a circa 83 mg/kg/die (in un uomo di 70 kg arriva quindi a circa 6 grammi/die).
Nell’atleta il fabbisogno è, come abbiamo visto, superiore fino a raddoppiare.
Il dosaggio consigliato per un atleta, in funzione della corporatura e del carico di lavoro, può variare tra i 6 e i 10 grammi al giorno. La loro somministrazione si è dimostrata efficace se frazionata durante l’arco della giornata, prima e dopo l’attività fisica (preferibilmente lontano dai pasti); non dimentichiamo infatti che i BCAA sono aminoacidi essenziali e rientrano anch’essi nelle necessità del turnover proteico generale.

Arginina e Agmantina

La supplementazione con arginina (L-arginina 10%; 5 ml/Kg per 30 min) determina i seguenti effetti:
a) aumenta la guarigione delle ferite, incrementando la disponibilità di precursori per la sintesi di poliamine e collageno; b) è efficace contro l’insufficienza renale acuta, per la produzione di NO; c) protegge il miocardio dai danni da riossigenazione, azione mediata dal GMPc; d) induce regressione dell’ateroma nell’aterosclerosi (azione NO-mediata); e) riduce la proliferazione del tumore colorettale e l’iperproliferazione delle cellule della cripta; f) allevia i danni causati da ischemia e riperfusione nel fegato (azione mediata dall’NO); g) attenua la disfunzione endotossina-indotta del vasorilassamento polmonare dipendente dall’endotelio; h) è necessaria per ripristinare le concentrazioni di aminoacido utilizzate dall’intestino durante l’assorbimento (40%).

FIGURA 2

FIGURA 3

Un prodotto derivato dalla decarbossilazione dell’arginina è l’agmatina.
L’agmatina è stata identificata in vari organi (stomaco, intestino tenue, milza, surrene, aorta, muscolo scheletrico, cervello, fegato, rene, macrofagi) e in alte concentrazioni nel siero. L’agmatina si lega ai recettori alfa 2 e per l’imidazolina, suggerendo un ruolo nella trasduzione del segnale nella cellula, può inoltre inibire l’attività dell’ornitina decarbossilasi, enzima chiave della sintesi delle poliamine, inducendo la sintesi dell’antizima, e sopprimendo la proliferazione cellulare mediante una riduzione delle concentrazioni cellulari di poliamine stesse. L’agmatina è anche un debole inibitore competitivo degli isoenzimi della NO sintetasi, dunque può essere un regolatore endogeno della sintesi di NO, se le sue concentrazioni locali sono sufficientemente alte ed è un inibitore dell’arginina decarbossilasi, concorrendo ad una regolazione molto fine della sintesi di NO e poliamine.
Essa diminuisce, infine, l’attività della monoamino ossidasi (MAO).
Le azioni biologiche dell’agmatina sono le seguenti:
a) essa svolge un ruolo regolatorio nella infiammazione;
b) previene e/o attenua i segni della sindrome da astinenza da morfina;
c) provoca ipotensione, per un azione a livello centrale (spiazza la clonidina), e/o per un’azione diretta sulle cellule della parete dei vasi sanguigni;
d) agisce come molecola anti-proliferativa e potenzialmente anti-tumorale, riducendo le concentrazioni di poliamine cellulari;
e) ha un ruolo di neurotrasmettitore essendo correlata con la depressione;
f) è un debole secretagogo dell’insulina.

Glutamina

FIGURA 4

È un aminoacido non essenziale, ma necessario per l’organismo per le molteplici azioni metaboliche che svolge nei vari tessuti.

FUNZIONI DELLA GLUTAMINA

  • Substrato della sintesi proteica
  • Sostanza anabolica/trofica per il muscolo, per l’intestino “competence factor”, in quanto serve a stimolare la sintesi proteica
  • Controlla il bilancio acido/base (ammoniogenesi renale)
  • Substrato per l’ureogenesi epatica e renale
  • Combustibile per gli enterociti intestinali
  • Combustibile e precursore degli acidi nucleici nelle cellule immunocompetenti
  • Scavenger dell’ammoniaca
  • Substrato per la sintesi di ornitina e arginina
  • Donatore di azoto (nucleotidi, aminozuccheri, coenzimi)
  • Trasportatore di azoto (un terzo dell’azoto circolante; muscolo, polmone)
  • Precursore del GABA (acido gamma-aminobutirrico) attraverso la via del glutammato
  • Substrato preferenziale per la produzione di glutatione
  • Meccanismo di regolazione osmotica nel controllo della sintesi proteica
  • Stimola la sintesi del glicogeno
  • Coinvolta nel metabolismo di arginina-NO

Circa il 20% di tutto il pool di aminoacidi circolante nel sangue è costituito da glutamina, che si può perciò definire il veicolo più importante di trasporto di azoto tra i tessuti; è inoltre un substrato fondamentale per l’ammoniogenesi.
La glutamina è senz’altro uno dei principali aminoacidi nel nostro organismo. È un importantissimo nutriente per il cervello e può migliorare le funzioni cerebrali. Ha proprietà anticataboliche e favorisce il recupero metabolico. Aumenta il volume cellulare portando con sé acqua ed altri nutrienti, tra cui aminoacidi, all’interno delle cellule e perciò migliora il metabolismo proteico, creando migliori condizioni per la sintesi di nuovo tessuto muscolare.
Le dosi giornaliere possono variare da 5 g fino a 15 g, preferibilmente dopo gli allenamenti.
Un aumento del livello di insulina (quindi della glicemia) può migliorare l’assorbimento di glutamina, pertanto è consigliabile assumerla dopo gli allenamenti con succo di frutta o piccole quantità di zucchero o miele (per esempio: 10 g di glutamina in 200 ml di succo di frutta). La glutammina ha anche proprietà stimolanti il rilascio dell’ormone della crescita o GH: in questo caso va assunta a stomaco vuoto e a glicemia bassa, preferibilmente prima di coricarsi e in abbinamento ad altri aminoacidi con simili proprietà, come arginina, ornitina, glicina, lisina. La glutammina si degrada piuttosto velocemente in acqua (già dopo qualche giorno inizia la decomposizione), sicché si consiglia di utilizzarla in giornata dopo averla preparata con acqua.
Si consiglia di utilizzare sempre i prodotti contenenti aminoacidi entro le 24 ore dopo averli preparati in acqua.
La glutamina viene utilizzata intensivamente dai muscoli in attività e per tale motivo i suoi livelli plasmatici, in corso di attività fisica protratta, diminuiscono progressivamente: la somministrazione preventiva di aminoacidi a catena ramificata attenua questo calo. Al termine dello sforzo i livelli di glutammina plasmatica tendono a ristabilirsi in un tempo variabile da alcune ore ad alcuni giorni, a seconda dell’intensità dello sforzo eseguito e delle capacità di recupero dell’atleta.
Glutamina e sindrome da sovrallenamento. Un calo permanente, anziché transitorio, dei livelli plasmatici di glutammina è sino ad ora l’unico segno biochimico correlato alla sindrome da sovrallenamento. Poiché la glutammina è anche un substrato energetico importante per il funzionamento dei globuli bianchi, il suo calo è stato posto in relazione con la maggior facilità a contrarre infezioni, anche banali, che si verifica durante la sindrome da sovrallenamento, il cui segno principale rimane il calo del rendimento fisico. La somministrazione di glutammina trova quindi una ragione di impiego nei periodi di allenamento intenso, meglio se associata ad aminoacidi a catena ramificata, per ridurre i rischi di sovrallenamento. L’assunzione deve ovviamente avvenire prima dello sforzo (60 minuti prima).
La supplementazione con glutammina a fini puramente sportivi non sembra apportare particolari benefici, tuttavia, poiché la sintesi di questo aminoacido avviene principalmente nel tessuto muscolare, a partire da ammoniaca e acido glutammico, e poi esso viene inviato ad altri tessuti secondo le loro esigenze metaboliche ed energetiche specifiche, alla glutammina si ascrive un effetto anticatabolico e di aumento dei processi che portano alla sintesi proteica. Per questo la supplementazione con glutammina, almeno in teoria, potrebbe risultare utile per contrastare il catabolismo proteico e dei danni muscolari indotti da somministrazione ripetuta di glucocorticoidi. Alcuni studi hanno osservato un ruolo della glutammina sul glicogeno muscolare, evidenziando che la somministrazione di glutammina promuove l’accumulo di glicogeno muscolare durante il recupero, aumentando così la sua disponibilità dopo l’esercizio.
Gli effetti della somministrazione di glutammina sono stati studiati sulla performance di sollevatori di pesi e su giovani frequentatori di palestra tra i 18 e i 24 anni i quali avevano ricevuto glutammina. In entrambe i casi la supplementazione con glutammina non ha mostrato effetti statisticamente significativi sulla performance muscolare, sulla composizione corporea o il turn-over muscolare di questi sportivi. Da questi e altri studi si ricava che, pur ricoprendo un ruolo di primaria importanza nell’omeostasi amminoacidica generale e partecipando a numerose funzioni dell’organismo, la supplementazione con glutammina a fini puramente sportivi non sembra apportare particolari benefici laddove non sussistano conclamati stati climici di carenze che richiedano una sua supplementazione.
Altre indicazioni sull’effetto della supplementazione con glutamina nello svolgimento dell’attività fisica, derivate da numerose evidenze sperimentali, permettono le seguenti considerazioni generali. Dopo l’esercizio, la somministrazione di glutamina (30-50 mg/kg) stimola l’accumulo del glicogeno muscolare (incorporazione nel polisaccaride degli atomi della glutamina). Durante l’esercizio, la somministrazione di glutamina permette: a) il suo inserimento nei processi metabolici noti; b) di agevolare le vie di smaltimento dell’ammoniaca muscolare; c) di stimolare la gluconeogenesi. Nell’esercizio intenso e prolungato, la somministrazione di glutamina (anche 0,1-5,0 g/kg, non essendo stati osservati problemi di tossicità) aumenta la concentrazione di glutamina plasmatica di due volte dopo 30 minuti con effetti positivi sui parametri immunitari e minore incidenza delle infezioni.
Il ruolo metabolico della glutamina nello svolgimento dell’attività fisica è riconducibile ai seguenti effetti: a) controllo dell’apoptosi, infatti, le cellule private di glutamina si avviano precocemente verso l’apoptosi; b) regolazione della pressione osmotica nei tessuti (aumento di volume del muscolo); c) controllo della funzione neurotrasmettitoriale, tramite il glutamato; d) trasporto dell’ammoniaca; e) controllo della gluconeogenesi e glicogenosintesi; e) trasformazione in arginina (quindi in poliamine, NO, agmatina); f) utilizzazione come combustibile (intestino, linfociti, fibroblasti, ecc.); g) precursore degli acidi nucleici; h) regolazione delle concentrazioni di glutatione; i) controllo dell’acidosi metabolica.
La risposta iniziale allo stress implica la liberazione di glutamina dal muscolo e la sua disponibilità ai tessuti periferici.

Glutamina e risposta immunitaria

Un altro importante ruolo della glutammina risiede nel mantenimento delle difese immunitarie dell’organismo. Cellule linfocitarie e macrofagi che hanno il compito di difendere il nostro organismo dalle infezioni, sfruttano la glutammina come fonte di rifornimento, infatti mediante la glutaminolisi, i linfociti e i macrofagi ricavano l’energia necessaria e l’azoto per la sintesi degli acidi nucleici. In condizioni normali e di riposo, l’organismo è in grado di produrre tutta la glutammina necessaria, mentre in condizioni di stress o di affaticamento muscolare la richiesta aumenta e una carenza di glutammina potrebbe essere in correlazione con i fenomeni immunodeppressivi che si verificano dopo un allenamento intenso. A questo scopo l’integrazione con glutammina potrebbe ridurre l’incidenza di patologie infettive delle prime vie aeree che costituisce un fenomeno statisticamente significativo dopo una competizione prolungata o dopo allenamenti particolarmente intensi e gravosi. Una riduzione di queste infezioni delle prime vie respiratorie è stata osservata in maratoneti ai quali era stata offerta una bevanda contenente 5 g di glutammina in 330 ml di acqua minerale al termine e due ore dopo la fine della gara. Più del 60% degli atleti sottoposti a tale trattamento non sviluppò patologie infettive. Per contro, ulteriori studi non sono riusciti però a dimostrare che gli effetti della glutammina erano in qualche modo correlati a variazioni nel numero dei linfociti.
Nell’esercizio intenso e prolungato, oltre al decremento della glutamina, si rileva una diminuzione:

  • dell’attività citolitica delle cellule natural killer
  • del numero dei linfociti T circolanti, per 3-4 ore dopo l’esercizio
  • della capacità proliferativa dei linfociti
  • dei livelli di immunoglobuline nel sangue e nella saliva
  • del rapporto delle cellule CD4:CD8

e un’alterata sintesi degli anticorpi.

Taurina

La taurina deriva dalla cisteina per ossidazione, decarbossilazione e successiva ossidazione. Si trova in forma coniugata negli acidi biliari, ma anche in forma libera nei muscoli scheletrici e nel cuore. La taurina è stata poco studiata, ma è tuttavia consigliata per degli ipotetici benefici: diminuzione della frequenza cardiaca, miglioramento della trasmissione nervosa, facilitazione dell’eliminazione dell’acido urico, diminuzione del tasso ematico di colesterolo LDL, prolungamento dell’esercizio, diminuzione della fatica.

Carnitina

Mantiene l’efficienza del metabolismo cellulare. La carnitina è deputata al trasporto degli acidi grassi attraverso le membrane cellulari e all’interno dei mitocondri, dove essi sono ossidati per produrre energia (ATP). Favorisce l’utilizzo a scopo energetico degli acidi grassi a dosaggi di 500-1000 mg al giorno o anche più.
In un recente studio l’integrazione con 3 g di carnitina al giorno ha favorito il recupero dopo intensi allenamenti (attività anti-catabolica). La carnitina, in dosaggi da 2 a 5 g al giorno ha anche aumentato le prestazioni di atleti in sport di lunga durata. Indirettamente favorisce la formazione di glicogeno epatico e muscolare, rallentando la sua degradazione attraverso le reazioni della glicolisi.
Acetil L-Carnitina: è l’estere acetilico della L-carnitina, una forma di carnitina più attiva ed assorbita più efficacemente perché attraversa più facilmente le membrane cellulari ed è utilizzata nei mitocondri in modo più efficiente. Ha proprietà anticataboliche. Il dosaggio proposto è di 500 mg – 1.3 g al giorno. Svolge positivi effetti sul sistema nervoso aiutando la percezione del “senso di forza”; può incrementare le funzioni di vigilanza e migliorare l’umore. Può essere associata alla L-carnitina. Nuove ricerche stanno aprendo nuove frontiere nell’utilizzo della acetil-l-carnitina nel campo del fitness, benessere e azione antistress.
La carnitina è una molecola importante nel metabolismo degli acidi grassi. Determina la diminuzione degli acidi grassi liberi aumentati con l’esercizio fisico dopo la deplezione muscolare del glicogeno e contrasta la produzione di ammoniaca ed acido lattico muscolare. È importante nel metabolismo degli aminoacidi ramificati e indicata nelle prestazioni atletiche di resistenza. Sono consigliate dosi fino a 1-2 g/die per i bodybuilders in quanto si ritiene che favorisca l’eliminazione del tessuto adiposo e incrementi la produzione di testosterone e l’anabolismo muscolare.
Riepilogando, le funzioni principali della carnitina sono:
a) trasportare gli acidi grassi dal citoplasma cellulare all’interno del mitocondrio, organulo in cui avviene il processo di Beta-ossidazione degli acidi grassi, con produzione di energia; b) modulare il metabolismo del coenzima A e quindi indirettamente favorire lo svolgimento dei processi ossidativi.
La carnitina alimentare deriva dagli alimenti animali: carne e pesce. L’organismo umano è comunque in grado di sintetizzarla a partire da lisina e metionina (due aminoacidi essenziali); la sua sintesi avviene nel fegato, da cui viene rilasciata in circolo e successivamente captata da cuore e muscolo scheletrico.
Negli atleti si è osservato che la capacità del muscolo di ossidare gli acidi grassi è direttamente proporzionale ai livelli intracellulari di carnitina. Poiché inoltre l’esercizio fisico può provocare una perdita di carnitina dal muscolo, la possibilità che l’atleta possa trovare giovamento da un supplemento di carnitina costituisce la logica conclusione di queste osservazioni.
Il fabbisogno di carnitina nell’atleta è di 2 grammi al giorno. Un mese di supplementazione con 2 grammi al giorno in atleti sottoposti ad allenamenti regolari ha portato ad un incremento del 12% dei livelli intramuscolari di carnitina.

Carnosina

La carnosina è un dipeptide, ossia una molecola composta da due aminoacidi, l’alanina e l’istidina, sintetizzata dalla carnosina sintetasi che è responsabile anche della sintesi dell’anserina e dell’omocarnosina. È ingerita con la dieta assumendo carne e pesce ed è assorbita intatta nel tratto gastrointestinale. Si trova nel cervello, muscolo cardiaco, rene, stomaco, bulbi olfattori e in notevoli quantità nel tessuto muscolare.
La carnosina è un antiossidante multifunzionale che può inattivare i radicali liberi, chelare i metalli pro-ossidativi quali il rame, e formare coniugati con i prodotti aldeidici dei lipidi potenzialmente tossici. La carnosina provoca rilassamento vascolare nei vasi arteriosi isolati con un meccanismo endoteliale non dipendente dal GMPc.
Ciò che sappiamo sul ruolo metabolico della carnosina ci dice che essa regola la glicolisi, la contrazione muscolare, la fosforilazione ossidativa, stimola il sistema immunitario, lega rame, zinco e calcio e le purine, suggerendo un potenziale coinvolgimento nella regolazione genica o nella traduzione del segnale.
La carnosina dovrebbe svolgere anche un ruolo importante nel processo dell’invecchiamento, infatti, l’aging è associato al danno macromolecolare indotto dai radicali liberi e il conseguente accumulo di proteine ossidate-cross-linked-denaturate. Ciò avviene a causa della glicosilazione (o glicazione) non-enzimatica delle proteine, in cui le aldeidi dei glucidi reagiscono con i gruppi amminici delle proteine, preferenzialmente con i gruppi imidazolici e/o carbossilici. La carnosina che possiede tali gruppi è in grado di proteggere e risparmiare le proteine.
A differenza della lisina glicata (lisina + glucoso) che è mutagenica, la carnosina glicata (carnosina + glucoso) non lo è. La carnosina inoltre previene il cross-linking di DNA/proteine indotto dall’acetaldeide e formaldeide. Queste reazioni sono fra le principali cause dell’invecchiamento e della degenerazione cellulare. La carnosina è l’unico nutriente naturale conosciuto con questa proprietà. La carnosina sembra dunque essere proprio un nutriente importantissimo nella prevenzione dell’invecchiamento e della degenerazione cellulare. Essa è anche un buon tampone dell’acido lattico ed ha attività antiossidante: effettivamente riduce il bruciore muscolare conseguente ad intensi allenamenti migliorando tangibilmente le prestazioni atletiche. Il dosaggio efficace è nell’ordine dei grammi, da 1 a 5 grammi o anche più, 30-60 minuti prima della prestazione. Può essere utile anche l’assunzione nel giorno precedente la gara (da 1 a 5 g), per aumentare il livello di carnosina nei muscoli.
La carnosina è uno dei nutrienti più efficaci nel migliorare le prestazioni atletiche ed è un utilissimo nutriente con azione antiossidante e antiglicazione.
Dopo i primi studi compiuti che ne hanno rivelato una buona attività anti-ossidante, successivamente ci si è accorti che interviene nel controllare i livelli intracellulari di calcio nelle cellule miocardiche, e che quindi può migliorare la contrattlità cardiaca.
In definitiva, le proprietà accertate della carnosina che possono avere un risvolto pratico per lo sportivo sono le seguenti: a) incrementa la fosforilazione ossidativa (la produzione di ATP mediante i processi ossidativi); b) svolge azione tampone sull’acidosi metabolica intracellulare; c) potenzia la stimolazione della fosforilazione ossidativa indotta da ADP; d) esercita un’azione anti-ossidante e anti-invecchiamento.
Inoltre, uno studio eseguito su alcuni atleti che hanno ricevuto una supplementazione dietetica di carnosina per tre giorni ha evidenziato un aumento significativo dei livelli di 2,3 difosfoglicerato (DPG), che fa diminuire l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno e procura quindi una migliore ossigenazione dei tessuti, del rapporto DPG/emoglobina, e un miglioramento del recupero dopo uno sforzo massimale (Wingate test).

Sommario delle possibili attività protettive e potenziali applicazioni della carnosina

ATTIVITÀ PROTETTIVE
A livello molecolare: a) azione antiossidante; b) attività di glicazione; c) anti-crosslinker; d) anti-età; e) scavenger delle aldeidi e dei radicali liberi.
A livello cellulare: a) ritarda la senescenza; b) elimina le cellule trasformate; c) aumenta i livelli di vitamina E; d) immunostimolante; e) favorisce il recupero muscolare.

POTENZIALI APPLICAZIONI PROFILATTICHE O TERAPEUTICHE
Nelle complicazioni secondarie del diabete (es., cataratta), aterosclerosi, insufficienza renale, autoimmunità, tumore, stati infiammatori, cirrosi epatica, malattia di Alzheimer.

OKG (ornitina alfa-chetoglutarato)

Le azioni sull’organismo dell’okg, possibili anche se incostanti, sono le seguenti: favorisce lo smaltimento dell’ammoniaca prodotta negli sforzi prolungati per prestazioni massimali; ha azione sul cortisolo con effetto favorevole sull’anabolismo; incrementa la glutammina muscolare che diventa essenziale negli stress fisici; previene le sindromi da super-allenamento. Le sue azioni sono da attribuire ai suoi componenti. La quantità giornaliera da assumere è di 2000 mg.
Effetti della supplementazione con ornitina alfa-chetoglutarato nell’animale e nell’uomo, secondo diversi modelli sperimentali. Nell’uomo, nel trauma da ustione, la supplementazione con 10-20 g/di ha determinato: a) inibizione della degradazione miofibrillare, b) contrasto della caduta del pool della glutamina muscolare dovuta al trauma, c) aumento della glutamina.
Nel ratto con danni da ustione, l’okg svolge un’importante azione immuno-modulatoria che può aumentare i meccanismi di difesa in animali sottoposti a gravi stress. Nella mucosa intestinale di ratti, la somministrazione di okg causa un incremento considerevole nelle concentrazioni di glutamato e putrescina ed un aumento drammatico (10-16 volte) nelle concentrazioni del GABA. Si ritiene che l’aumentata formazione di GABA nella mucosa intestinale dopo trattamento con okg sia di notevole importanza fisiologica nei processi regolatori della crescita e differenziazione cellulare. L’okg svolge la funzione fondamentale di essere il precursore della glutamina, arginina e poliamine. La supplementazione con okg aumenta le concentrazioni plasmatiche di ornitina e i suoi metaboliti correlati, glutamina e prolina, dell’arginina e delle poliamine (Figure 2-4), e diminuisce contemporaneamente l’assorbimento portale della glutamina da parte degli enterociti. L’okg ha un effetto stimolante sulla secrezione del GH e dell’insulin-like growth factor-I (IGF-I). Parallelamente ai suoi effetti sul plasma, la supplementazione con okg aumenta significativamente (fino a tre volte) la concentrazione muscolare di glutamina, prolina ed ornitina.

Creatina

La creatina rappresenta il più emblematico degli esempi di utilizzo di integratore nella pratica sportiva. La creatina, in realtà, non è una sostanza dopante nel senso tradizionale del termine, in quanto si tratta di una molecola fisiologica fondamentale per il metabolismo energetico. È un derivato degli aminoacidi arginina, metionina e glicina, presente nei muscoli scheletrici per il 95% e per il restante 5% in altri organi quali cuore, cervello, testicoli, retina. Essa viene sintetizzata dal fegato, reni e pancreas ad una quantità di circa 2 grammi al giorno. Nei muscoli è presente per un quarto come creatina libera e per i tre quarti come fosfocreatina.
La fosfocreatina è un composto altamente energetico che fornisce energia di pronto uso. Infatti, durante l’attività motoria l’energia utilizzata dal muscolo scheletrico per la sua contrazione deriva dall’idrolisi dell’ATP ad ADP; la normale funzionalità dei muscoli richiede poi che l’ATP sia continuamente risintetizzato a partire da ADP + fosfocreatina.
Il rapporto tra creatina libera e fosforilata varia in relazione alle condizioni funzionali e dipende dal tipo di fibra muscolare, dall’età, dalla presenza o meno di malattie ma è relativamente indipendente dal livello di allenamento e dal sesso. Per un soggetto della massa di 70 kg, il turnover di creatina è dell’ordine di 2 g al giorno.
Durante l’attività muscolare intensa e di breve durata il decremento della forza sviluppata può essere messo in relazione al depauperamento delle riserve muscolari di fosfocreatina, con conseguente rallentamento della velocità di rigenerazione dell’ATP. Una supplementazione con creatina può tradursi in un aumento della sua concentrazione muscolare e quindi essa può opporsi al decremento di rifornimento energetico in corrispondenza di attività ad alta intensità anaerobica.
Il turnover è di circa 1.5% corrispondente appunto a 2 g al giorno; la creatina viene convertita in modo irreversibile a creatinina che viene escreta come tale nelle urine. La perdita di creatina corporea è coperta sia dalla sintesi endogena (fegato, pancreas e rene) a partire dalla glicina, arginina e metionina, sia dall’apporto dietetico, principalmente dalla carne e dal pesce.
Sebbene la prestazione muscolare venga nettamente aumentata dalla presenza del sistema PC/C, questo non è indispensabile, come invece lo è l’ATP, per la contrazione muscolare.
Non c’è prova che la creatina stimoli direttamente la sintesi proteica muscolare e quindi non sembra essere dimostrabile un qualsiasi effetto anabolico.
Possibili meccanismi di miglioramento della performance muscolare della creatina sono: a) aumentata produzione di ATP; b) maggiore risintesi di PC nei periodi di ristoro fra brevi ed intensi esercizi massimali; c) attivazione della glicogenolisi e delle altre vie cataboliche; d) contributo al tamponamento dell’acidosi intracellulare durante l’esercizio, dal momento che l’idrolisi della PC utilizza protoni; e) possibile ipertrofia ed iperidratazione cellulare muscolare.
Effetti sul muscolo dell’integrazione con creatina. Il muscolo ha una capacità massima di stoccaggio per la creatina di 150-160 mmol/kg. Più bassa è la concentrazione iniziale, maggiore potrà essere il potenziale guadagno ottenuto dall’integrazione. L’aumento medio registrato, utilizzando diverse procedure di “carico”, varia dal 6% al 20%. Esiste una consistente parte (20-30%) di soggetti “non responder”, i quali risultano incapaci di aumentare la concentrazione di creatina muscolare dopo integrazione.
La concentrazione muscolare ritorna ai valori basali dopo circa 4 settimane dalla sospensione dell’integrazione.
Integrazione con creatina. Abitualmente i protocolli utilizzati prevedono:
Fase di carico. Dosaggi intorno ai 20 g al dì (0.3 g/kg) divisi in 3-4 somministrazioni, per i primi 4-6 giorni. La procedura di carico è probabilmente non necessaria dato che gli stessi livelli di creatina muscolare si raggiungono anche con 3 grammi al giorno, ma sono necessari almeno 30 giorni.
Fase di mantenimento. Dopo aver raggiunto la massima concentrazione muscolare ottenibile, si prosegue con una dose di mantenimento di circa 2 grammi al giorno (0.03 g/kg).
Fase di scarico. Alcuni protocolli consigliano un periodo di scarico di 1-2 settimane dopo 3-4 mesi di uso.
Associazioni nutrizionali. È stato dimostrato che l’assunzione di glucidi (100 g/5 g di creatina) migliora la capacità di captazione muscolare di creatina per una probabile stimolazione insulino-mediata del trasporto muscolare. Recenti studi hanno però dimostrato che l’assorbimento muscolare di creatina è soprattutto sodio-dipendente, mentre l’insulina non ha alcun effetto sull’uptake della creatina.
Effetti sulla performance sportiva. Si può affermare che esiste un reale effetto ergogenico dell’integrazione con creatina valido essenzialmente solo per sforzi brevi, intensi e ripetuti; tale miglioramento della prestazione sembra essere legata al dosaggio, al periodo di somministrazione, al tipo di esercizio ed al rapporto tra lavoro e recupero. Negli sport di durata non è attualmente dimostrabile un qualsiasi effetto.
Effetti sulla composizione corporea. La maggior parte degli studi indica che la fase rapida di carico con creatina comporta un aumento del peso di 0.5-1.5 kg che è dovuto sostanzialmente a ritenzione idrica sia intra- che extra-cellulare. Altri studi a lungo termine hanno dimostrato che la massa magra risulta aumentata anche per un reale aumento della massa muscolare vera e propria. Alcuni autori hanno ipotizzato che l’iperidratazione cellulare funga da stimolo alla sintesi proteica e che la capacità dell’atleta di svolgere una maggiore mole di lavoro sia anch’essa uno stimolo anabolizzante.
Possibili effetti collaterali. L’assunzione di dosaggi non elevati di creatina per brevi o medi periodi sembra essere ben tollerata e priva di effetti indesiderati. Per quello che riguarda la somministrazione cronica e/o a considerevoli dosaggi sono stati suggeriti diversi possibili e potenzialmente pericolosi effetti collaterali, quali effetti gastrointestinali, effetti sulla funzionalità epato-renale, crampi muscolari e infortuni muscolo-tendinei, disidratazione e influenza sull’omeostasi elettrolitica, effetti su altri organi contenenti creatina, soppressione della sintesi endogena di creatina, effetto cancerogeno per la possibile formazione di formaldeide, quale prodotto del catabolismo della creatina. Sono state segnalate impurità in alcuni prodotti in commercio.
In Italia la creatina è commercializzata tra gli “Alimenti destinati ad una alimentazione particolare” sia come integratore alimentare per la popolazione normale sia come alimento speciale adattato ad un’intensa attività sportiva. Essa può essere destinata alla popolazione generale (compresi gli sportivi) ai sensi del D.L. 27/1/92 n° 111 e agli sportivi, in maniera specifica, ai sensi dell’Allegato I del succitato D.L.
Le modalità di commercializzazione per gli “Alimenti adattati ad un intenso sforzo muscolare soprattutto per gli sportivi” sono state definite con la Circolare del Ministero della Sanità (n° 8, giugno 1999) riportante le “Linee guida sugli alimenti adattati ad un intenso sforzo muscolare soprattutto per gli sportivi”.
Al sensi delle suddette Linee guida: la supplementazione orale di creatina per dosaggi inferiori ai 2.5-3 g/die è da considerarsi un’integrazione dietetica per la popolazione generale in condizioni di aumentato fabbisogno di creatina, compresi i soggetti che praticano un’attività motoria di tipo ludico e che assumono una dieta squilibrata sia per i contenuti (povera di carboidrati/proteine e ricca di grassi), sia per le modalità di assunzione lungo la giornata (scarsità quantitativa nella colazione del mattino e nel pranzo, con incremento della cena).
La supplementazione orale di creatina per dosi fino a 4-6 g/die può essere considerata una alimentazione speciale per atleti che sono sottoposti ad intensi allenamenti di forza e di sprint, raccomandandosi in questo caso una supervisione medica. La supplementazione non dovrebbe superare le due settimane per evitare di inibire la naturale sintesi endogena della creatina da parte dell’atleta stesso. L’utilizzo orale di creatina per dosi superiori ai 6 g/die non è consentito dalla normativa italiana poiché supera di tre volte il turnover giornaliero della creatina endogena e di almeno sei volte il fabbisogno giornaliero della creatina stessa. Nella Circolare n° 8 del Ministero della Sanità l’uso di creatina viene comunque controindicato in soggetti di età inferiore ai 12 anni.

Coenzima Q (Ubichinolo, Ubichinone, CoQ10)

Il coenzima Q o ubidecarenone è un composto fisiologico, presente a livello mitocondriale dove svolge un ruolo cruciale nel trasporto degli elettroni e dei protoni nella catena respiratoria cellulare.
Perossidazione dei lipidi nella cellula ed effetto del CoQ10. La forma chimicamente ridotta dell’ubidecarenone manifesta un effetto antiperossidativo ed antiossidante contro la perossidazione lipidica di membrana: la perossidazione risulta direttamente correlata alle variazioni dei livelli di CoQ1O.
Esistono diversi possibili meccanismi mediante i quali l’ubichinolo reagisce con i radicali liberi lipidici, anche se fino ad ora non è stata dimostrata una reazione biochimica diretta. È noto che l’ubichinone reagisce con i radicali liberi stabili.
Un altro possibile meccanismo dell’ubichinolo è da porre in relazione con il suo effetto di “mettere in ordine” il doppio strato (bilayers) lipidico, e con l’effetto protettivo e ristoratore del CoQ nei confronti della inattivazione dell’ossidazione del NADH che si osserva quando la fosfolipasi C determina un’alterazione dei lipidi di membrana. Ciò implica che il CoQ previene la liberazione degli acidi grassi dal bilayers fosfolipidico e sopprime pertanto la perossidazione degli acidi grassi come risultato del suo effetto del “mettere ordine” nei fosfolipidi. In conclusione, l’effetto strutturale dell’ubichinolo sul bilayers fosfolipidico può essere uno dei più importanti fattori che previene la perossidazione lipidica e la propagazione della catena di reazioni che spesso esita nella morte cellulare.
In una cellula vivente o nell’organismo intero, è difficile concludere attualmente se uno di questi due meccanismi, la reazione diretta con i radicali liberi o l’effetto strutturale (“mettere in ordine”) sulla bio-membrana, sia maggiormente responsabile dell’effetto antiperossidativo dell’ubidecarenone somministrato.
La somministrazione di CoQ10 e di alfa-tocoferolo ai ratti per 5 giorni riduce significativamente la formazione di lipoperossidi nei mitocondri di fegato e cuore. In seguito ad occlusione dell’arteria coronarica discendente nel cane, la somministrazione di CoQ10 riduce l’aritmia e previene il danno dei mitocondri nell’area ischemica, che risultano strettamente correlati. Poiché in queste condizioni si è osservata una liberazione di prostaglandine, che rappresentano il prodotto terminale della perossidazione dell’acido arachidonico, l’effetto del CoQ10 può essere attribuito ad una sua prevenzione sulla perossidazione lipidica e all’effetto strutturale sulle membrane. Infatti la valutazione riguardo i lipidi dei mitocondri ischemici dimostra una diminuzione dei fosfolipidi ed un aumento degli acidi grassi liberi, segnalando l’attivazione delle fosfolipasi nel miocardio ischemico.
I risultati di esperimenti in vitro sull’effetto dell’ubidecarenone sulla digestione ad opera della fosfolipasi sulle vescicole di fosfatidilcolina indicano chiaramente che il CoQ10 riduce significativamente e drammaticamente il rilascio di acidi grassi dalle vescicole, ed è possibile concludere che il CoQ10 stabilizza le vescicole fosfolipidiche contro l’attacco da parte delle fosfolipasi.
In sintesi, l’ischemia determina un’attivazione delle fosfolipasi (che distruggono le membrane ed aumentano gli acidi grassi liberi), un rilascio del Ca++ (responsabile dell’attivazione della fosfolipasi) e la formazione di radicali liberi: ne consegue un aumento di perossidi. Questi perossidi insieme alla fosfolipasi alterano le membrane e la funzione mitocondriale portando a morte la cellula. L’effetto in vivo dell’ubidecarenone contro le reazioni precedentemente citate sembra essere dovuto alle sue proprietà antiossidanti vuoi per la sua reazione con i radicali liberi, vuoi per il suo effetto strutturale sulle bio-membrane rendendole resistenti alla digestione ad opera della fosfolipasi.
Vantaggi del CoQ come antiossidante. Diverse molecole possono agire contro i radicali liberi e limitare i danni da essi provocati; fra esse di particolare interesse è l’ubidecarenone. Infatti il CoQ10 ridotto agisce come un eccellente antiossidante analogo all’alfa-tocoferolo. L’alfa-tocoferolo, tuttavia, è ossidato dal superossido, ed il suo effetto quindi diminuisce nel tempo. Poiché il CoQ10 può essere ridotto enzimaticamente nei mitocondri, esso può agire come un antiossidante che si rigenera. Un altro vantaggio dell’ubidecarenone ridotto è la sua lipofilia che gli permette di essere presente nell’interno della membrana, strettamente correlato al sito della formazione potenziale del superossido. Pertanto, il CoQ10 può fornire una protezione antiossidante migliore di quella fornita dall’idrofilo alfa-tocoferolo e dal glutatione.
Coenzima Q ed attività muscolare. Anche nel muscolo il CoQ10 esercita le sue classiche funzioni di trasportatore di elettroni e di attività antiossidante.
Il muscolo a riposo e soprattutto quello di soggetti allenati utilizza preferenzialmente, come combustibile, gli acidi grassi. Nel muscolo scheletrico vi è un’elevata formazione di specie radicali, e gli atleti, con alte percentuali di fibre di tipo I (slow switch muscle fiber) che metabolizzano prevalentemente acidi grassi, posseggono anche elevata attività della superossido dismutasi (SOD) e della catalasi. È ragionevole assumere, pertanto, che tali fibre abbiano alti livelli di CoQ10 con azione antiossidante.
Il trattamento con ubidecarenone in soggetti sottoposti a prolungato esercizio fisico aerobico determina una significativa riduzione degli acidi grassi liberi circolanti. Ciò è attribuito ad una ridotta lipolisi, ma soprattutto ad una aumentata captazione ed utilizzazione da parte del muscolo degli acidi grassi, in quanto il CoQ10 è in grado di favorire i processi ossidativi cellulari.
Nell’uomo sano sia la capacità di eseguire un esercizio che la percentuale di fibre di tipo I sono positivamente correlati con il contenuto di CoQ10, ma si pone il problema di sapere se tale contenuto è sufficiente a fronteggiare la formazione di radicali.
Nei soggetti allenati non si rileva un’ulteriore incorporazione di CoQ10 nel muscolo e si osserva una correlazione inversa significativa fra livelli plasmatici di CoQ10 e capacità di esercizio, e, quindi fra livelli di CoQ10 e funzionalità muscolare. Pertanto, è stato suggerito che, come nei pazienti cardiopatici, sia necessaria una integrazione di ubidecarenone esogeno. Variazioni nel pool del CoQ possono portare a carenze funzionali che possono essere alleviate dalla somministrazione di ubidecarenone.

N-Acetilcisteina

La N-Acetilcisteina (NAC) è una molecola utilizzata da anni in medicina quale mucolitico e, ad alto dosaggio, quale antidoto nella intossicazione da paracetamolo e da Amanita phalloides.
Ad alte dosi si è rivelata dotata di attività antiossidante attraverso due meccanismi:
– azione diretta, grazie alla presenza di un gruppo sulfidrilico (SH) libero. Questa azione si esplica in ambiente extracellulare attraverso una reazione non enzimatica, dose-dipendente, diretta contro tutte le specie reattive dell’ossigeno (ROS).
– azione indiretta, intracellulare, dove la NAC, deacetilata, diventa L-cisteina, aminoacido essenziale per la sintesi di glutatione, antiossidante fisiologico, la cui somministrazione orale diretta risulta meno efficace in quanto rapidamente degradato.
In tal senso la NAC può essere considerata un “integratore indiretto” delle riserve endogene di glutatione.
Il dosaggio è compreso fra 600 e 1200 mg die, per via orale, durante i periodi di allenamento e di esercizio fisico agonistico.

Normative del Doping

Il doping ha una storia veramente lunga, dato che inizia con i Giochi Olimpici in Grecia, ed è principalmente sostenuto dal desiderio di vincere a tutti i costi.
Per evitare pratiche truffaldine il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) tramite la “Medical Commission” e la “Doping and Biochemistry in Sport” pubblica annualmente la lista delle “sostanze proibite” ed ha sviluppato sofisticati sistemi per rivelare l’abuso di farmaci o droghe.
Il termine “doping” deriva dal verbo inglese “to dope”, che significa “somministrare stimolanti” e dal sostantivo “dope” che ha il significato di “sostanza stimolante”.
Si tratta di un fenomeno molto complesso che coinvolge aspetti medici, farmacologici, sportivi e di costume e che pone numerosi quesiti quali: a) i tipi di trattamento e le sostanze usate, b) le dosi, c) i tempi e le modalità di somministrazione, d) le persone coinvolte (non solo atleti, ma anche medici, allenatori, ecc.), e) le modalità dei controlli antidoping (qualità delle competizioni; criteri di selezione e numero degli atleti da sottoporre ai controlli), f) le sanzioni da applicare, g) la prevenzione e l’elaborazione di valide strategie antidoping.
La dimensione del fenomeno appare rilevante, considerando anche, a questo proposito, che solo una minima parte degli sportivi viene sottoposta ai controlli antidoping e che gli esami di laboratorio non consentono di accertare tutte le forme di doping a causa anche della diffusione di sistemi, più o meno noti, che permettono di eludere i controlli antidoping.
L’impiego di farmaci ed i dosaggi scelti costituiscono spesso una pratica empirica non sostenuta da alcun fondamento scientifico, e a questo deve essere aggiunto che molti atleti assumono contemporaneamente più farmaci.
È necessaria quindi una corretta educazione sanitaria che informi circa i reali rischi legati all’uso non terapeutico dei farmaci e che consenta di sfatare i miti associati al doping.
Sotto il profilo scientifico è difficile dare una definizione veramente adeguata del doping. Il doping è la prescrizione nello sport di determinati farmaci e di pratiche dannose per la salute degli atleti prima ancora che non lecite.
Per doping, in ultima analisi, si deve intendere quanto l’autorità sportiva ritiene tale e quindi proibisce.
Il CONI ha pubblicato la lista delle sostanze vietate e dei metodi proibiti per l’anno 2004. Ne riportiamo un elenco riassuntivo:
A) Sostanze vietate: stimolanti, narcotici, cannabinoidi, agenti anabolizzanti, ormoni peptidici, beta-2-agonisti, agenti con attività anti-estrogenica, agenti mascheranti, glucocorticosteroidi.
B) Metodi proibiti: aumento del trasporto di ossigeno, manipolazione farmacologica, chimica e fisica, doping genetico.
C) Sostanze proibite in particolari discipline sportive: alcool, beta-bloccanti, diuretici.
Gli stimolanti (amfetamine, cocaina, efedrina, pseudoefredina, caffeina) sono impiegati ad uso doping in quanto aumentano il livello di vigilanza, riducono la fatica e possono aumentare l’agonismo e l’aggressività.
I narcotici-analgesici (morfina e analoghi chimici e farmacologici) trovano impiego in ambito sportivo per il loro effetto antidolorifico. I rischi associati all’assunzione di queste sostanze includono la dipendenza psichica e fisica, la tolleranza e la depressione respiratoria.
Gli agenti anabolizzanti vietati dal C.I.O. sono classificati in (1) steroidi anabolizzanti, androgeni (testosterone e sostanze affini); (2) altri agenti anabolizzanti.
Gli steroidi anabolizzanti vengono utilizzati per incrementare la massa, la forza e la potenza muscolare e per sollecitare una maggiore carica agonistica. I numerosi effetti lesivi degli steroidi anabolizzanti includono tossicità a carico del fegato, degli apparati cardiovascolare e endocrino, sviluppo di tumori e disturbi psichiatrici.
Negli uomini si possono riscontrare diminuzione delle dimensioni dei testicoli e della produzione di sperma, nelle donne mascolinizzazione (es., aumento della peluria, ingrossamento della voce), perdita del tessuto mammario e interruzione del ciclo mestruale.
L’assunzione di queste sostanze da parte di adolescenti può causare l’arresto della crescita incidendo sullo sviluppo alle estremità delle ossa lunghe.
L’illiceità dell’uso dei diuretici (farmaci che causano l’eliminazione dei liquidi dai tessuti) in ambito sportivo è motivata dal fatto che questi farmaci inducono un rapido calo ponderale (utile negli sport che prevedono la suddivisione in categorie di peso) e possono mascherare l’identificazione di sostanze proibite in virtù dell’effetto di riduzione della loro concentrazione urinaria.
Il recente sviluppo di tecniche di genetica molecolare come la preparazione di DNA ricombinante ha consentito una maggiore disponibilità di ormoni peptidici. Alla classe degli “ormoni peptidici ed analoghi” proibiti dal C.I.O. appartengono la gonadotropina corionica, la corticotropina (ACTH), l’eritropietina (EPO), l’ormone della crescita (GH) e l’insulina.
Gonodotropina corionica. È un ormone prodotto fisiologicamente durante la gravidanza, il quale viene assunto dagli atleti maschi, di solito, allo scopo di stimolare il testicolo a secernere ormoni androgeni prima delle prove atletiche e di prevenire l’inibizione della funzione testicolare e l’atrofia del tessuto gonadico indotta dalla protratta assunzione di androgeni. Se utilizzata per periodi prolungati, la gonadotropina corionica può causare ginecomastia, la quale però può essere neutralizzata dalla concomitante somministrazione di testosterone.
Ormone della crescita (GH). L’azione principale del GH, sfruttata ai fini del doping è quella di stimolare la sintesi proteica. La sua azione è potente come quella del testosterone, e quando questi ormoni operano assieme, attraverso differenti vie metaboliche, i loro effetti singoli si sommano e possono risultare sinergici. Il GH, inoltre, mobilizza i grassi mediante un’azione lipolitica diretta, fornendo l’energia per la sintesi proteica. La stimolazione della sintesi proteica avviene anche mediante la mobilizzazione sulla membrana dei trasportatori degli aminoacidi, con un meccanismo biochimico analogo a quello utilizzato dall’insulina sui trasportatoti del glucoso. Anche l’IGF-I agisce direttamente stimolando la sintesi proteica, ma possiede un’azione lipolitica più debole. Il GH è impiegato dunque a fini anabolizzanti in quanto accresce la massa muscolare e riduce i depositi di grasso. Attualmente viene preferito agli steroidi in quanto è difficilmente accertabile attraverso i controlli antidoping e in alcuni atleti è radicata la convinzione di poter ottenere gli effetti desiderati senza incorrere negli effetti secondari degli anabolizzanti steroidei. Dal punto di vista dell’azione biologica, l’ormone agisce sull’accrescimento dei tessuti, determina la ritenzione dell’azoto e favorisce l’incorporazione degli aminoacidi nelle proteine, influisce sul metabolismo dei carboidrati (aumenta i livelli di glucosio nel sangue) e su quello dei lipidi. Gli effetti collaterali del GH includono reazioni allergiche, effetti diabetogeni e acromegalia nel caso di somministrazioni a dosi elevate.
Insulina. L’insulina come “agente dopante” ha una storia recente dato che il suo esordio con tale utilizzo avvenne alle Olimpiadi invernali di Nagano nel 1998, configurando un paradigmatico esempio di una inappropriata estrapolazione degli studi in vivo alle applicazioni in vivo.
Esistono diverse vie metaboliche attraverso le quali l’insulina può agire come agente che aumenta la performance: a) attraverso l’incremento dell’assorbimento del glucosio nelle cellule in quantità superiore alle necessità per la respirazione cellulare, può stimolare la formazione del glicogeno; b) la somministrazione durante l’allenamento e dopo la prestazione sportiva migliora, probabilmente, il recupero e la capacità di resistenza attraverso l’azione metabolica appena descritta; c) mediante l’inibizione del catabolismo delle proteine nel muscolo, aumenta la massa muscolare nei body builders, nei sollevatori di pesi e negli atleti di potenza.
GH e IGF-I agiscono stimolando la sintesi proteica, mentre l’insulina inibisce il catabolismo delle proteine, pertanto, essi sono sinergici nella loro potente azione anabolica.
L’insulina è essenziale per l’azione anabolica del GH, la cui somministrazione, in assenza di adeguata liberazione pancreatica di insulina, determina un effetto catabolico mentre le sue attività lipolitiche e chetogeniche possono indurre produzione abbondante di corpi chetonici e chetoacidosi diabetica.
Eritropoietina (EPO). L’EPO è un ormone prodotto dal rene che agisce stimolando la proliferazione e la maturazione di globuli rossi.
L’assunzione di EPO umana ricombinante è un metodo doping particolarmente attraente per l’atleta perché la forma ricombinante dell’ormone è identica alla forma nativa e non esiste un metodo efficace per la sua identificazione differenziata nelle urine o nel sangue. Inoltre la sostanza permane per breve tempo nell’organismo, a differenza dei suoi effetti che persistono per diverse settimane dopo la sospensione del trattamento.
Si ritiene che l’aumento dell’ematocrito (% del volume totale del sangue rappresentato dagli elementi corpuscolati) e dei globuli rossi comporti un miglioramento della prestazione agonistica a seguito dell’aumento della capacità massimale di captazione dell’ossigeno. In altre parole la maggiore disponibilità di ossigeno durante lo sforzo muscolare migliorerebbe il metabolismo energetico (metabolismo aerobico), favorendo l’utilizzo di acidi grassi e diminuendo la formazione di acido lattico.
Il ricorso all’EPO comporta rischi non trascurabili per la salute dell’atleta, correlati all’aumento della viscosità del sangue e della pressione arteriosa. Livelli di ematocrito superiori al 55% possono causare convulsioni, encefalopatia, trombosi e infarto del miocardio. L’iperviscosità ematica è particolarmente insidiosa al termine di competizioni che comportano forte disidratazione: l’atleta disidratato che ha fatto uso di EPO può presentare livelli di ematocrito fino al 60-70%! In condizioni normali l’atleta difficilmente supera il limite massimo consentito (50%).
Il doping ematico consiste nella trasfusione di sangue o di prodotti affini contenenti globuli rossi ad un atleta per motivi diversi da un trattamento terapeutico. Analogamente all’assunzione di EPO, questa pratica ha lo scopo di aumentare il contenuto di globuli rossi del sangue e quindi di favorire il trasporto di ossigeno.
I rischi connessi con il doping ematico includono reazioni allergiche, possibile trasmissione di malattie infettive, sovraccarico del sistema circolatorio e shock metabolico.
Per manipolazione farmacologica, chimica o fisica quale metodo doping si intende “l’uso di sostanze e di metodi in grado di alterare l’integrità e la validità dei campioni di urine utilizzati per i controlli antidoping” quali la cateterizzazione, la sostituzione e/o la manomissione delle urine, l’inibizione della secrezione renale di sostanze (per mezzo del probenecid e farmaci affini), l’applicazione di epitestosterone.
Il probenecid, il cui uso è vietato dal 1988, è un agente mascherante in quanto riduce la concentrazione urinaria di sostanze dopanti quali gli ormoni steroidei. L’epitestosterone viene somministrato per mantenere il rapporto urinario testosterone/epitestosterone inferiore a 6. Negli anni ’80 l’epitestosterone veniva prodotto dall’azienda di stato della Repubblica Democratica Tedesca Jenapharm, senza che se ne potesse individuare alcuna indicazione terapeutica. Si sospetta che esso fosse utilizzato soltanto per mascherare il doping.
Tra le sostanze soggette a determinate restrizioni l’alcool è espressamente vietato soltanto in alcuni sport (es. pentathlon moderno) in relazione al suo effetto “anti-tremore” quando assunto a dosi moderate.
Il consumo di marijuana da parte degli atleti pur non essendo proibito è oggetto di dibattito. Alcuni sostengono che essa dovrebbe essere vietata perché l’atleta rappresenta un modello per la società e la sostanza può nuocere alla salute. D’altra parte lo scopo dell’antidoping è quello di controllare che le competizioni sportive si svolgano in modo leale e senza vantaggi ottenuti attraverso i farmaci e altre sostanze. I corticosteroidi sono usati sia come farmaci anti-infiammatori (che attenuano anche il dolore) sia per il loro effetto euforizzante che riduce la percezione della fatica e quindi aumenta il rischio di sforzi eccessivi a carico dell’apparato muscolare e tendineo.
Gli anestetici locali sono spesso somministrati per iniezione o infiltrazione locale in associazione ai corticosteroidi. Sia i corticosteroidi che gli anestetici locali sono consentiti in situazioni patologiche preventivamente documentate.
L’uso dei beta-bloccanti nello sport è finalizzato al controllo del tremore e dell’ansia ed è soggetto a restrizioni nell’ambito di quelle discipline sportive (tiro con l’arco, biathlon, pentathlon moderno, tuffi, bob, slittino, salto con gli sci, ecc.), che non implicano gare di resistenza ovvero che non richiedono un intenso e prolungato impegno cardiaco. In queste ultime circostanze, infatti, l’impiego di tali farmaci è altamente improbabile, sebbene essi possano essere assunti per ridurre la frequenza cardiaca di base
In conclusione, “dalle sostanze naturali al doping” rappresenta un percorso pieno di difficoltà e insidie, a causa del confine molto sottile fra pratiche lecite ed illecite cosicché solo una forte motivazione di lealtà sportiva e una convinzione etica collettive, unite a grande professionalità degli operatori sanitari e degli addetti del mondo dello sport, potrà evitare di compromettere la carriera agonistica di tanti giovani o addirittura potrà aiutarli a non mettere a rischio la loro vita.

Gli Autori:

Giancarlo Palmieri (Direttore Dipartimento di Area Medica – Ospedale Niguarda Ca’ Granda, Milano)
Vincenzo Pincolini (Facoltà di Scienze Motorie, Università degli Studi di Parma)
Amos Casti (Professore Ordinario di Biochimica Sistematica Umana – Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Biochimica, Biochimica Clinica e Biochimica dell’Esercizio Fisico – Università degli Studi di Parma)

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