IL PIEDE PIATTO IDIOPATICO GIOVANILE

di Gaetano Pagnotta – Specialista in Ortopedia e Traumatologia
Il piede piatto idiopatico (PPI) è una delle patologie più frequenti dell’età evolutiva.
Esso può essere causato da cause molteplici e può essere legato a malattie neurologiche muscolari e malformative (basti ricordare il PPI da fusione tarsale). Noi concentreremo la nostra attenzione su quello cosiddetto idiopatico che è di gran lunga il più comune.
Tale quadro patologico si presenta nei primi anni di vita, anche se dobbiamo aspettare i tre anni di età per avere conferma della patologia. Prima di questa età spesso l’abbondanza del grasso plantare nasconde la volta e simula un piede piatto.
Comunque per confermare la diagnosi si deve sempre associare un valgismo di retropiede (Figura 1) che deve essere sempre ricercato nel dubbio diagnostico e valutato in visione sotto carico.
Va premesso che il Piede Piatto Idiopatico NON è una patologia vera e propria ed è assimilabile a quei disturbi genericamente definiti “paramorfismi”; ciò vuol dire che non provoca altre patologie agli arti, né tanto meno alterazioni della corretta postura del rachide come erroneamente viene prospettato.
Il PPI è frequente anche tra gli atleti che non hanno nessuna limitazione da questa patologia nella loro vita ludica e sportiva!
Diverso è il caso del PPI doloroso, ma di questo parleremo più avanti.
Dunque cosa fare nel caso di un piede piatto infantile.
La nostra cultura ortopedica è molto vicina al plantare di sostegno della volta longitudinale del piede che è invece assai poco considerato presso altre scuole, prima tra tutte quella nordamericana.
La nostra linea di comportamento è intermedia in quanto riteniamo utile il plantare solo entro i 5-6 anni di vita in quanto il piede è ancora in accelerato accrescimento somatico e tale crescita si può giovare di un corretto posizionamento del calcagno e di una riduzione della divergenza astragalo-calcaneare.
Dopo questa età riteniamo che il plantare sia realmente poco efficace.
Va inoltre ribadito un concetto a tale riguardo: se il plantare svolge una funzione essa si esplica essenzialmente sotto carico, quando come detto agisce sulla riduzione del valgismo di calcagno e sul sostegno della caduta astragalica. Ebbene abbiamo mai pensato a quante sono realmente le ore che un bambino passa in ortostatismo?
Tolte la notte, la scuola (dove si dovrebbe stare seduti!), la televisione, il computer, le ore passate in piedi sono incredibilmente assai poche …
Ultimamente si è trovata una soluzione che in certe tipologie di PPI sembra risolutiva. Si tratta dell’endortesi sottoastragalica.
Il concetto è stato introdotto da tempo, ma solo nell’ultimo decennio esso è stato razionalizzato da Sandro Giannini, professore ordinario di Ortopedia all’Istituto Rizzoli di Bologna.
L’endortesi sottoastragalica ha la funzione meccanica di “aprire” il seno del tarso e di sostenere la caduta astragalica correggendo contemporaneamente il valgismo di calcagno.
La tecnica d’impianto è semplice e le complicazioni sono pressoché nulle.
Dopo l’impianto si consiglia un’astensione dal carico per un paio di settimane o una tutela semirigida della articolazione tibio tarsica.
Ultimamente il materiale si è ulteriormente affinato con l’avvento della vite in acido polilattico, materiale biologico e riassorbibile in circa due anni che evita la necessità di rimuovere la vite come invece avveniva con la precedente metodica.
Ovviamente per fruire dell’endortesi riassorbibile dobbiamo trattare un piede in accrescimento e prevedere una crescita dello stesso di almeno 2-3 numeri di calzatura (14-21 mm) Solo cosi possiamo ritenere che la correzione persista stabile anche quando la protesi si è completamente riassorbita.
Sulle dimensioni della vite invece non ci sono particolari dubbi in quanto la funzione correttiva non è solo meccanica (e dunque legata alla dimensione) ma, come indicato bene dallo stesso Giannini, anche propriocettiva e pertanto anche una protesi leggermente sottodimensionata svolge egregiamente il proprio compito.
Nel caso che il piede sia a fine accrescimento o prossimo ad esso, evidentemente opteremo per una vite endotarsale non riassorbibile che può essere inserita e mantenuta in maniera definitiva.
Ma quando tale intervento si rende realmente necessario?
Come detto all’inizio il PPI è un quadro clinico assai frequente che spesso decorre asintomatico. Ed è proprio una questione di sintomatologia che ci deve condurre all’opzione chirurgica e non certo l’aspetto estetico di un piede piatto.
Vogliamo cioè ribadire che solo la presenza di dolore al carico prolungato, difficoltà alla corsa, iniziale deformità in valgo del 1°dito danno precisa indicazione all’intervento.
Inoltre va aggiunto che molto recentemente l’indagine condotta sul paziente con PPI tramite l’analisi del passo ha evidenziato alcuni aspetti anomali rispetto al paziente normale, quali una ridotta escursione articolare tibio-tarsica, un recurvato di ginocchio ed altro ancora.
Tali alterazioni regrediscono completamente dopo l’intervento tanto da portarci ad ipotizzare che il PPI sia una vera è propria patologia ancora non del tutto compresa, e nel determinismo della malattia stessa e nelle alterazioni indotte sull’arto inferiore.
Quando e perché operare
Il piede piatto idiopatico (PPI) dell’infanzia è uno degli argomenti più discussi nel campo ortopedico pediatrico. E ciò nonostante la relativa benignità del problema.
Gli argomenti discussi sono tanti ed articolati. Li elenchiamo di seguito cercando di dare loro una risposta esaudiente.
- Quando un piede si deve definire piatto?
- Il plantare è realmente efficace?
- Il piede piatto se trascurato a cosa può condurre?
- L’intervento chirurgico quando deve essere proposto? E fino a che età?
- In che consiste l’intervento chirurgico?
- L’intervento chirurgico presenta limitazioni e controindicazioni?
Quando un piede si deve definire piatto?
Intanto non prima dei 2-3 anni in quanto fino a quell’età l’adipe sotto-plantare può nascondere una volta plantare che in effetti è presente ed è solo nascosta.
Dopo questa età può comparire un piede piatto che di solito si associa ad eversione del meso piede e valgismo del retropiede.
Figura 1 – In questo schizzo dell’autore si può vedere la deformità in valgo del calcagno.
Essa va sempre ricercata nel dubbio di piede piatto idiopatico.
Il plantare è realmente efficace?
Su questo punto i pareri sono discordanti. Basta pensare che al di fuori dell’Italia (vedi USA, paesi anglosassoni ecc.) il plantare non è mai prescritto.
Noi siamo un poco più possibilisti, riconoscendo al plantare qualche possibilità solo se indossato nella prima infanzia e solo se inserito in una calzatura morbida e flessibile che ben lascia muovere il piede nelle sue articolazioni.
Il piede piatto, se trascurato, a cosa può condurre?
Premesso che il PPI è una patologia benigna dobbiamo dire che sono modeste le alterazioni che esso può comportare se trascurato.
Uno degli aspetti più conosciuti riguarda la comparsa dell’alluce valgo.
L’intervento chirurgico quando deve essere proposto? E fino a che età?
Diciamo subito che due sono le motivazioni che ci spingono ad operare un PPI:
– quella estetica
– quella funzionale
Sulla prima non ci esprimiamo ricordando che l’aspetto esteriore non ci deve spingere verso scelte terapeutiche – in questo caso chirurgiche – che non condividiamo e che, pur nei limiti di un intervento di modesta entità, sono sempre gravate da una percentuale di rischio.
La motivazione che ci deve portare all’intervento deve essere solo ed esclusivamente funzionale: in parole povere il soggetto portatore di PPI deve provare dolore al carico e presentare difficoltà all’attività fisica, anche banale, come la corsa (Figura 2).
a – Pre-Operatorio
b – Post-Operatorio
Figura 2 -Immagine dell’impronta del piede prima e dopo intervento (endoprotesi tarsale eseguita a dx). Si può notare come il piede contro-laterale sia ulteriormente peggiorato nell’ultimo semestre.
Per quanto riguarda l’età bisogna fare una distinzione e dividere i pazienti in due fasce: quelli lontani dalla maturazione scheletrica e quelli prossimi alla maturazione scheletrica.
Nei soggetti più giovani pertanto, quelli cioè che lasciano prevedere una crescita ulteriore del piede di almeno 2-3 anni, si sceglierà la endortesi riassorbibile.
Nei ragazzi prossimi alla fine della crescita o che hanno un piede che ha raggiunto la sua dimensione definitiva si opterà per una endortesi non riassorbibile che verrà mantenuta in situ a vita.
Ma che cos’è questa endortesi sottoastragalica e in particolare come funziona?
La ortesi sottastragalica non è altri che un sistema espansibile dalla lunghezza variabile, ma mai superiore ai 15 mm, e dalla circonferenza variabile dagli 0.7 a 1.2 mm.
La parte espansibile è resa tale da una vite conica coassiale che procedendo all’interno “allarga” appunto la parte mobile per far modo che essa aderisca perfettamente allo spazio virtuale del sinus tarsi.
Il seno del tarso è dunque quello spazio delimitato dall’astragalo e dal calcagno che nel piede piatto è fortemente ridotto, ma con la protesi endotarsale si amplia notevolmente correggendo le deviazioni patologiche di entrambe le due ossa tarsali.
Ma la funzione dell’endortesi non è solo meccanica. E’ presente anche una funzione di stimolazione propriocettiva nella regione suddetta che contribuisce ad una corretto riallineamento dell’astragalo e del calcagno su entrambi i piani.
Ed è proprio il riallineamento e la correzione dei rapporti tra astragalo e calcagno il razionale del trattamento, che diventerà stabile e non regredibile con la crescita del piede almeno di due numeri di calzatura.
Quando invece il piede è giunto a fine crescita e con la rimozione dell’ortesi si rischia di perdere la correzione ottenuta, come detto si opta per l’ortesi definitiva che quando mantenuta in sede non provoca alcun disturbo e non è assolutamente limitante nella vita quotidiana, ludica e sportiva.
Il materiale riassorbibile è solitamente acidoLpolilattico che garantisce mantenimento della dimensione e della funzione dell’ortesi almeno per due, tre anni.
Ogni numero di calzatura corrisponde a 7 mm. Due numeri di crescita corrispondono dunque a circa 1.5 cm.
In che cosa consiste l’intervento?
Da un punto di vista strettamente chirurgico l’intervento non presenta difficoltà particolari e le complicazioni sono estremamente ridotte. La durata, comprensiva dei tempi di induzione e risveglio dall’anestesia è di circa 30-40 minuti.
E’ corretto dire comunque che anch’esso come ogni atto chirurgico è gravato da una “quota” pur minima di imprevedibilità che non può mai essere allontanata completamente dagli atti chirurgici.
L’intervento è condotto in anestesia generale con intubazione solitamente attraverso maschera laringea che evitando la curarizzazione e lasciando il paziente in respiro spontaneo, permette un più rapido risveglio.
L’incisione, di circa 1.5-2 cm, è condotta inferiormente e anteriormente al malleolo peroneale.
Una volta inciso il sottocute, si divarica il legamento a siepe e si inseriscono i divaricatori cilindrici a calibro crescente fino ad ottenere una soddisfacente riduzione del valgismo di calcagno.
A questo punto si inserisce l’endortesi che viene fissata avvitando semplicemente fino allo stop la vite coassiale. Procedura che è la stessa, sia che si tratti di materiale assorbibile che permanente.
Dopo una sutura accurata del legamento predetto, si sutura la cute con materiale riassorbibile.
Si confeziona infine uno stivaletto in materiale plastico, privo di vetroresina, per 15-20 giorni durante i quali è sconsigliato caricare.
Alla rimozione dello stivaletto sono sufficienti 3-4 giorni di riadattamento per camminare liberamente.
Dopo 30-40 giorni è possibile riprendere qualunque attività sportiva.
La copertura antibiotica solitamente non supera i 3-4 giorni.
A volte si rende necessaria una blanda terapia antidolorifica durante la prima giornata post-operatoria.
Dobbiamo aggiungere per completezza che questo è uno dei metodi di correzione chirurgica del piede piatto idiomatico.
Esistono infatti altri metodi che riducono la deviazione del calcagno con viti trans-ossee non riassorbibili che mantengono nel tempo la correzione, altrettanto validi, pratici ed efficaci e non gravati da particolari complicazioni.
La nostra scelta va comunque all’endortesi sottoastragalica per la possibilità di disporre di materiale riassorbibile e per sfruttare la funzione propriocettiva di tale impianto.
L’intervento chirurgico presenta limitazioni e controindicazioni?
Le limitazioni riguardano essenzialmente la etiologia del PPI, cioè la causa che lo ha prodotto.
Il piede piatto pronato neurologico per esempio non si avvale positivamente di tale tecnica chirurgica.
Va però aggiunto che attualmente alcune scuole ortopediche pediatriche hanno iniziato a proporlo in pazienti neurologici affetti in maniera meno grave e con assente compromissione psichica.
Nei casi di piede piatto spastico infatti si preferiscono tecniche di atrorisi più stabili quali, per esempio, l’intervento di Grice.
Tale intervento in alcuni casi può essere associato ad una cosiddetta ritenzione mediale con “cappotto” della capsula mediale e avanzamento del tendine del Tibiale Posteriore.
Comunque, in linea di massima, l’intervento con endortesi sottoastragalica è riservato a pazienti non affetti da patologie neuro-muscolari associate.
Altra limitazione a tale intervento è la presenza di alterazioni anatomiche del retropiede: ci riferiamo principalmente alle sinostosi astragalo-calcaneari e a quelle (più rare) calcaneo-cuboidee.
Sono queste situazioni congenite caratterizzate dalla mancata segmentazione fetale dei suddetti segmenti scheletrici che portano a vere e proprie fusioni interossee in età infantile.
E’ evidente che queste fusioni portano ad una netta rigidità di quei distretti articolari che noi con l’endortesi vogliamo mobilizzare e correggere e che dunque non sortisce l’effetto desiderato.
La rimozione di questi ponti ossei non sempre è coronata da successo perché essi, non di rado, tendono a riformarsi.
Controindicazioni all’uso della protesi endotarsale ne sono state descritte molto poche e considerando la mole di impianti fin qui eseguiti si può dire che esse rappresentano una quota veramente minima e poco rappresentativa.
Non è mai stata descritta intolleranza all’acidoLpolilattico, mentre un solo caso ha presentato una forma di reazione alla protesi fissa in polietilene e acciaio. In questo caso, dopo un breve periodo di osservazione, con terapie antinfiammatoria, tutela da immobilizzazione prolungata e restrizione dell’attività sportiva, visto il perdurare della sintomatologia locale, si è provveduto alla rimozione delle endortesi con semplice e breve intervento chirurgico.
Tra le complicazioni sono state descritte da più autori rottura della endortesi e mobilizzazione della stessa.
Questi problemi, secondo la nostra esperienza, possono essere in parte superati con una maggiore accortezza nell’impianto.
In primo luogo la endortesi in acidoLpolilattico non va sovradimensionata: nel dubbio tra due misure è sempre meglio scegliere la misura più piccola che può evidentemente essere inserita più profondamente nel sinus tarsi.
La scelta di un’endortesi più piccola non comporta poi la necessità di una forzatura nell’inserimento della stessa, con rischio di rottura.
Nel caso che la rottura dell’endortesi avvenga nella fase successiva all’inserimento, questo di solito non comporta problemi in quanto rimane valida la funzione propriocettiva dell’impianto.
Se la correzione del piattismo dovesse marcatamente recedere , solo allora si dovrà provvedere alla rimozione dei frammenti e all’inserimento di un nuovo impianto.
Non si dimentichi la funzione anche propriocettiva dell’impianto che pertanto può essere anche un poco più piccolo della sede d’impianto.
Bibliografia
- Gutierrez PR, Lara MH: Giannini prosthesis for flatfoot – Foot Ankle Int. 2005 Nov;26 (11):918-26
- Giannini BS, Ceccarelli F, Benedetti MG, Catani F, Faldini C: Surgical treatment of flexible flatfoot in children a four-year follow-up study – J Bone Joint Surg Am. 2001;83-A Suppl 2 Pt 2:73-9.
