IMMUNODEFICIENZA CONGENITA: IL RUMORE DEGLI ZOCCOLI … TALORA DIPENDE DALLE ZEBRE, NON DAI CAVALLI: COME SOSPETTARE UN’IMMUNODEFICIENZA CONGENITA …

Giuseppe Luzi
Introduzione
Il sistema immunitario risulta costituito da quattro distretti funzionalmente integrati che agiscono con lo scopo di difendere l’organismo da vari agenti patogeni: virus, batteri, funghi, protozoi, elminti. I quattro distretti includono la risposta umorale specifica mediata dai linfociti B (con produzione di anticorpi), l’azione cellulo-mediata specifica (della quale sono responsabili i linfociti T e le relative sottopopolazioni), l’attività fagocitaria (risposta cellulare non specifica) e l’intervento di molecole regolatorie e di lisi, responsabili della risposta umorale non specifica (per es.: complemento).
Poiché l’immunità, nella sua piena estrinsecazione, è il risultato finale del convergere di diverse componenti, quando una o più anomalie sono documentabili durante il controllo degli agenti patogeni, viene a definirsi il quadro di immunodeficienza. Le malattie da immunodeficit pertanto sono conseguenti all’assenza o inadeguata funzione, in forma isolata o mista, della risposta specifica o non specifica.
Le immunodeficienze primitive (IDP, Immunodeficienza Primitiva) sono legate a difetti intrinseci elettivamente localizzati nelle cellule immunocompetenti e dei loro precursori; le IDP sono causate da alterazioni genetiche. Nel caso delle immunodeficienze acquisite (IDS, Immunodeficienza Secondaria) i termini classificatori sono meno evidenti, in quanto la struttura immunitaria viene coinvolta secondariamente a seguito di una malattia che ha origine in distretti anatomici al di fuori del sistema immunitario. Le IDS non hanno, per la gran parte, una base geneticamente definita.
Le principali immunodeficienze congenite note e le altre che vengono via via identificate nel tempo grazie al progredire delle ricerche sono sottoposte a revisione critica periodica, con aggiornamenti successivi necessari per estendere le conoscenze clinico-diagnostiche e i relativi meccanismi patogenetici. Allo scopo di rendere operativo l’aggiornamento sui nuovi dati in acquisizione esiste un Comitato Internazionale di esperti i quali, nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si riuniscono periodicamente per compilare una sintesi estensiva sia delle singole malattie sia delle procedure diagnostiche e terapeutiche
Già a partire dalla fine degli anni Sessanta del XX secolo un notevole contributo allo studio delle IDP è derivato dalla pubblicazione di dati appartenenti ai registri nazionali.
Nell’ambito delle I.D.P. la classificazionebase, oggi possiamo dire “storicamente definita”, include alcuni gruppi principali ai quali appartengono le diverse forme morbose conosciute:
a) deficit combinati dell’immunità umorale e cellulare
b) deficienze prevalentemente anticorpali
c) sindromi particolari associate a immunodeficienze “ben definite”
d) alterazioni della fagocitosi
e) deficit delle frazioni complementari.
A questo insieme si sono aggiunti nel corso del tempo almeno altri due gruppi, comprendenti sia le malattie congenite o ereditarie associate ad immunodeficienza sia quelle in evoluzione con deficit primitivo della risposta immunitaria di incompleta e ancora incerta classificazione. Tuttavia una consistente “rivoluzione” nel contesto delle classificazioni la troviamo alla fine degli anni Novanta del Novecento, con una rapida progressione soprattutto grazie alle conoscenze di genetica. Pertanto lo schema “storicamente definito” si è evoluto considerando un approccio più ampio, in funzione delle miglio
rate conoscenze sulla risposta immunitaria. Lo schema di riferimento attuale include:
1. immunodeficienze combinate dei T e B linfociti
2. deficit prevalentemente anticorpali
3. altre sindromi ben definite (associate a più ampi difetti)
4. malattie da immunodisregolazione
5. difetti congeniti della risposta fagocitaria (numero, funzioni o entrambi)
6. difetti della risposta immunitaria innata
7. disordini autoinfiammatori
8. difetti del complemento.
I principali parametri che distinguono le IDS dalle IDP sono riassumibili come segue: i difetti congeniti sono rari e correlati a fattori genetici, anche se in alcune condizioni con immunodeficienza acquisita sembrano emergere particolari aspetti di predisposizione costituzionale-genetica; nelle IDS il sistema immunitario, prima del manifestarsi del danno, è di solito integro; la prevalenza delle diverse forme morbose secondarie è consistentemente più alta rispetto a quanto noto per le IDP, ma dati epidemiologici su vasta scala sono ancora incompleti o insufficienti; la lesione immunitaria di tipo IDS è abitualmente reversibile, almeno quando la causa principale risulti corretta con opportuna terapia.
Per le IDS le classificazioni includono diversi aspetti patologici e/o funzionali quali possono essere le neoplasie, interventi terapeutici con impiego di immunosoppressori, nascita prematura, senescenza, ma anche malattie di tipo metabolico (come il diabete), forme autoimmuni (Lupus eritematoso sistemico), varie infezioni (HIV, Cytomegalovirus, etc.), uremia e insufficienza renale con nefrosi (sindromi proteino-disperdenti), malnutrizione (iponutrizione e obesità), ustioni, splenectomia, anestesia, impiego di radiazioni e così via.
Il modello di studio fornito dalle IDP rappresenta un approccio di grande utilità per svolgere una più ampia e completa analisi delle funzioni presenti durante la risposta immunitaria in condizioni normali e patologiche. Molte delle conoscenze acquisite sulla risposta immunitaria nell’ambito delle patologie IDP sono state di fondamentale utilità per impostare le indagini e comprendere la patogenesi del danno causato dal virus dell’immunodeficienza acquisita (AIDS). Le IDP, definite da R. Good (uno dei pionieri nell’ambito degli studi sul sistema immunitario) con preveggente arguzia intellettuale “esperimenti della Natura”, se all’inizio degli anni Settanta del Novecento rappresentavano un ristretto campo di ricerca per alcuni clinici e biologi, successivamente hanno costruito un cardine fondamentale per i progressi dell’Immunologia. Sebbene per alcune di esse la prevalenza nella popolazione non sia alta (le IDP fanno parte delle malattie rare), tuttavia l’epidemiologia è solo parzialmente nota.
D’altro canto l’esistenza di familiarità dei difetti e la presenza di anomalie parziali rendono le IDP una patologia degna della massima attenzione, che vede la necessaria collaborazione tra il medico di famiglia, lo specialista immunologo e i centri di ricerca nei quali possono essere effettuate le diagnosi a livello laboratoristico, livello necessariamente di alta qualità e specializzazione tecnica per il tipo di indagini che vengono effettuate: esse riguardano il settore della genetica molecolare e della biologia cellulare.
Il medico pratico deve avere consapevolezza clinica e gestionale delle immunodeficienze, sia perché i sintomi e i segni con i quali le ID si manifestano vengono osservati primariamente in corso di visite ambulatoriali o a letto del paziente, sia perché i necessari approfondimenti (e la collaborazione con i centri specialistici) consentono di arrivare in tempi brevi a formulare diagnosi corrette e conseguentemente a impostare le possibili terapie. Alcune di queste (trapianto di midollo osseo, impiego di cellule staminali, uso di immunoglobuline sostitutive per via endovenosa) hanno mutato radicalmente la prognosi e reso benefici sostanziali per la qualità della vita dei malati.
Il problema delle classificazioni
Le IPD sono in gruppo di malattie nelle quali è possibile identificare un difetto o più difetti
della risposta immunitaria, con conseguenti alterazioni della risposta cellulare o della sintesi di alcune proteine. Attualmente sono note almeno 200 IPD. Alcune sono rarissime, ma altre sono abbastanza diffuse. Nelle IDP i difetti possono riguardare uno o più componenti della risposta immunitaria. Molte forme sono a carattere ereditario, come nell’agammaglobulinemia legata al sesso o la classica SCID (Severe Combined Immunodeficiency), mentre altre varianti come l’Immunodeficienza Comune Variabile e il deficit selettivo delle IgA non sempre hanno una specifica caratterizzazione ereditaria. In questi casi si ritiene che l’interazione tra background genetico e fattori ambientali possa giocare un ruolo fondamentale nell’estrinsecazione del danno biologico con le relative conseguenze cliniche.
I soggetti con IDP hanno come prima conseguenza un maggior rischio di contrarre infezioni. I caratteri di queste infezioni sono in genere una loro aumentata frequenza in un certo periodo di tempo, la difficoltà di attuare un’efficace terapia, l’andamento clinico di solito molto grave, la comparsa di microrganismi patogeni non usualmente responsabili di importanti danni clinici. Le infezioni possono essere localizzate o in forma sistemica. Siti anatomici comunemente coinvolti sono i seni paranasali, l’apparato respiratorio (bronchiti, polmoniti), il tratto intestinale.
Non dobbiamo però dimenticare un assunto molto importante. Nell’ambito del disordine immunitario correlato all’immunodeficienza, altre anomalie funzionali possono manifestarsi: infatti l’alterazione immunitaria in corso di IDP può associarsi a perdita di tolleranza per il “self” e così compaiono anche malattie autoimmunitarie. Un altro aspetto di non minore importanza è il rischio che, nel corso del tempo, abbiano a manifestarsi vari tumori (linfomi, adenocarcinomi, altri tipi): infatti le IDP, nell’ambito della disregolazione generale della risposta immunitaria, si associano a un maggior rischio della crescita neoplastica.
Le IDP possono manifestarsi in ogni età della vita.
Le prime forme vennero descritte in età pediatrica (erano i casi più gravi), ma successivamente la diagnosi è stata effettuata in varie età della vita (più frequentemente nell’adolescenza e in giovani adulti). Questo aspetto della diagnosi riguarda in particolare il fatto che alcune patologie, come la ICV (Immunodeficienza Comune Variabile) e il difetto selettivo di IgA, possono causare i primi sintomi all’inizio della vita adulta. Abbiamo detto che molte forme di IDP sono rare. Questo è un dato obiettivo, ma nel corso degli anni si è visto che le cose sono un po’ diverse e oggi approssimativamente si stima che una persona su 2000 abbia una qualche forma di IDP, sebbene in modalità non grave o clinicamente significativa. Ma attenzione: altre conoscenze inducono a considerare con molta prudenza questo aspetto. Vediamo perché.
La maggior parte di IPD sono ereditate in una delle tre differenti forme note: forma recessiva legata al sesso (X-linked), forma autosomica recessiva, forma autosomica dominante. Esempi di IDP legate al sesso sono la “classica” agammaglobulinemia di Bruton (X-linked), la SCID, la sindrome di Wiskott-Aldrich, la sindrome da iper IgM (con mutazioni del CD40 ligando), due forme di X-linked Lymphoproliferative Disease, la forma più comune di Malattia Cronica Granulomatosa.
Se i genitori di un bambino malato sono sani, ma ciascuno di essi possiede un gene alterato, allora ci troviamo di fronte a una forma autosomica recessiva: in pratica se il soggetto ha ereditato da un genitore un solo gene alterato, la malattia non si manifesta, ma se la trasmissione riguarda anche l’altro gene, allora il quadro clinico si manifesta. In questa situazione sono colpiti maschi e femmine, ma i loro genitori sono sani e solo portatori del difetto genetico. Esempi di forme autosomiche recessive sono alcune varianti di SCID e l’atassia teleangectasia. La terza variante genetica da considerare è una trasmissione autosomica dominante.
È una circostanza molto rara, ma ben nota. Se il figlio di una coppia riceve un gene mutato, per esempio dal padre, quando il gene normale del figlio è associato a quello alterato, è quest’ultimo che prevale. Si definisce effetto negativo dominante. La situazione si verifica nella sindrome da iper IgE, nella così detta sindrome WHIM, nella sindrome di DiGeorge, e alcuni rari difetti riguardanti la via di interferone-gamma/ Interleuchina 12.
Per mettere ordine in questo complesso problema della classificazione nell’aprile del 2014 è stato pubblicato un importante report [1, 2] elaborato da un comitato di esperti dell’Unione Internazionale delle Società di Immunologia. È un pregevole lavoro “in progress” perché correla con precisione il difetto genetico, le cellule coinvolte, il danno immunitario identificato e le caratteristiche cliniche. Esso rappresenta anche un nuovo approccio alla classificazione standard mettendo in relazione, per ogni forma descritta e codificata, il pattern genetico e le relative implicazioni patologiche che coinvolgono la risposta immunitaria.
Torniamo ora al problema che abbiamo lasciato in sospeso. Perché dobbiamo essere prudenti quando parliamo di IDP? Perché il modo di vedere queste malattie è cambiato nel tempo e induce a ri-considerare in qualche modo anche il concetto stesso di malattia infettiva. Questa è stata definita a lungo come una malattia determinata da agenti patogeni che entrano in contatto con il soggetto colpito o come una patologia che si trasmette da un individuo ad un altro per mezzo di contatto o altro veicolo (aria, acqua, liquidi organici) a causa della penetrazione di un agente patogeno dentro l’organismo. In buona sostanza l’attenzione era rivolta sull’agente causale e sulle modalità di trasmissione. Soltanto in tempi relativamente più recenti si fa riferimento, nella stessa definizione di malattia infettiva, alla complessa interazione tra sistema immunitario e agente patogeno.
Può sembrare una definizione ovvia, ma tale è diventata solo da quando abbiamo cominciato a conoscere le varie modalità con le quali il sistema immunitario interagisce con i microrganismi dell’ambiente (sia patogeni sia non patogeni). Gran parte di questo processo di aggiornamento si basa su lavori originali di J.C. Casanova [3] e sull’estesa mole delle pubblicazioni del suo gruppo. Oggi l’attenzione si concentra proprio sulle definizioni e su un nuovo approccio alla classificazione delle IDP, “costruita” essenzialmente sul ruolo del laboratorio e della diagnosi molecolare.
Quando ci si riferisce alle IDP in generale noi ci basiamo, in prima approssimazione, su una “lettura” estensiva della malattia: sappiamo che il soggetto colpito va incontro ad un certo tipo di infezioni, in qualche modo prevedibili. Per esempio al deficit delle immunoglobuline si associano infezioni di batteri, mentre se c’è un difetto della risposta cellulo-mediata sono in causa i virus e i funghi. Naturalmente la realtà biologica e clinica è più complicata, ma possiamo dire che quando si configura una malattia infettiva (anche nel soggetto immunocompetente) in quel momento, quando cioè il patogeno prevale sulle difese , anche se temporaneamente, la risposta è deficitaria o quanto meno insufficiente. Quale è stato allora il progresso nelle conoscenze?
Immunodeficienze non convenzionali
Distinguere tra individui sani che possono sviluppare gravi forme di infezioni e soggetti con deficit immunitario, alla luce dei progressi acquisiti sulle modalità della risposta immunitaria, non è cosa semplice. Possiamo dire che si va ampliando la conoscenza sull’identificazione di soggetti che, pur avendo alterazioni “minori” vanno incontro a patologie gravi. Così entriamo nel capitolo delle IDP non convenzionali.
In questo gruppo di IDP sono descritti difetti genetici che riguardano in generale la risposta immunitaria innata, con alterazioni funzionali a carico di recettori cellulari o delle vie di trasmissione dei segnali intracellulari. Nel corso dell’ultimo decennio in letteratura sono stati descritti vari tipi di patologia da difetto non convenzionale, per esempio:
- infezione da micobatteri [deficit asse IL-12/ IL-23/IFN-γ/STAT1]
- gravi infezioni da piogeni [deficit di IRAK-4]
- encefalite da Herpes Simplex [deficit di UNC-93B, deficit di TLR 3].
Nel caso dell’encefalite da HSV è ben evidente il rapporto tra alterazione molecolare, danno biologico e conseguenze clinico-immunologiche. UNC-93B è una proteina transmembrana associata a diversi TLR. Tra questi anche il TLR 3. In sostanza permette la trasmissione del segnale all’interno della cellula. Se questa via si altera le cellule infettate da HSV non possono produrre IFN di tipo I (a e β) e del tipo III (γ). In questo modo si scatena una replicazione del virus senza controllo con le inevitabile conseguenze che ne derivano.
Un modello naturale dell’encefalite HSV è di particolare interesse. L’espressione di come oggi la genetica e il suo legame con la risposta immunitaria siano alla base di interpretazioni patogenetiche fondamentali è riportata in un lavoro pubblicato nel 2011 su J. Exp. Med. In questa ricerca gli autori analizzano il ruolo del deficit completo di TLR3 quale causa di encefalite da HSV, sottolineando come TLR3 sia comunque ridondante nel ruolo protettivo della risposta immunitaria.
Il case report riguarda, in particolare, una forma autosomica recessiva con deficit completo di TLR 3. Il soggetto colpito ha sviluppato una forma di encefalite da HSV-1 nell’infanzia, ma è rimasto normalmente resistente ad altre infezioni. Questo è dunque un concetto nuovo o comunque la dimostrazione che nel percorso della storia naturale di una malattia infettiva è oggi necessario risalire, quando possibile, al background genetico che ne caratterizza l’evoluzione e ne spiega l’andamento nel tempo.
Il sospetto diagnostico
Quando sospettare un deficit immunitario? Come, dove, perché? Sono interrogativi sempre necessari per tentare una risposta coerente e vantaggiosa per la persona malata o sospetta di esserlo. Partiamo dall’osservazione pratica: il medico pratico, il medico di famiglia, ma anche singoli specialisti in discipline non strettamente affini a quella immunologica possono incontrare soggetti con IDP.
Sappiamo che oltre il 50% delle forme diagnosticate riguardano l’immunità umorale (difetti quantitativi e qualitativi di anticorpi). Per le altre varianti è sufficiente avere a mente la distribuzione delle casistiche facilmente reperibili on line.
L’approccio generale alla diagnosi delle IDP e IDS si fonda su criteri sia clinici sia di laboratorio, che possono essere definiti in base a orientamenti selezionati per tipo di patologia. Uno degli schemi di riferimento può seguire i passaggi di seguito riportati:
a) infezioni (frequenza e tipologia)
b) varie malattie correlate ad alterazioni della risposta immunitaria
c) malattie o fenomeni di natura autoimmunitaria
d) allergie
e) comparsa di neoplasie.
Un’anamnesi accurata sulla familiarità di deficit immunitari funge da buon riferimento. Inoltre, una domanda da porsi riguarda la figura del medico che per primo formula l’ipotesi diagnostica. Gran parte delle IDP rare o rarissime sono inquadrabili in ambiente pediatrico, dove viene seguito lo sviluppo del bambino dalla nascita. Tuttavia alcune manifestazioni sono tardive e pertanto la loro identificazione può avvenire anche durante una visita del medico di famiglia, in età adulta. D’altro canto, soprattutto dopo il primo decennio di vita, quando il sospetto di una IDP può mascherarsi con altra sintomatologia, è possibile che il piccolo paziente sia visto da specialisti che orientano la loro indagine, per la gran parte dei casi, su aspetti di loro stretta competenza.
Non sarà perciò raro che il primo a visitare un bambino con IDP sia l’otorinolaringoiatra (sinusiti, otiti recidivanti), o lo pneumologo (bronchiti, broncopolmoniti, ascessi polmonari), il gastroenterologo (fenomeni di malassorbimento, diarree recidivanti), talora il chirurgo (per esempio, per intervenire su ascessi polmonari) o, per esempio, il dermatologo.
Ogni medico ha il fondamentale compito di arrivare al sospetto di immunodeficienza. Prima si arriva al corretto interrogativo diagnostico meglio è per la vita del paziente, quoad valetudinem in particolare. Infatti tra le conseguenze di una diagnosi tardiva si hanno come complicazioni danni anatomici e funzionali che, se irreversibili, possono condannare il malato ad una modesta qualità di vita (basti pensare al ruolo delle bronchiectasie). Il medico di famiglia può giovarsi di alcune analisi facilmente disponibili le quali, se adeguatamente interpretate, possono aiutarlo ad indirizzare il paziente presso l’immunologo clinico.
I segni e i sintomi che indicano l’instaurarsi di un’immunodeficienza sono anch’essi raggruppabili in base a quanto si osserva clinicamente (le infezioni tendono a cronicizzare o assumere un carattere ricorrente, gli agenti patogeni responsabili delle infezioni sono anche opportunisti o rari, la risposta al trattamento chemioantibiotico non è brillante e spesso, comunque, non assume carattere risolutivo). Inoltre vanno considerate nel loro insieme altre condizioni relative ad organi e apparati: manifestazioni cutanee, disturbi intestinali con diarrea e/o malnutrizione, insorgenza di allergie, comparsa di fenomeni autoimmuni, disordini della crasi ematica (non di rado insorgenza di anemie emolitiche, piastrinopenia, pancitopenie).
L’andamento cronico-recidivante delle malattie infettive, le conseguenze indirette del malassorbimento, altre anomalie anche di natura endocrina possono determinare un ritardo dello sviluppo pondero-staturale e psicofisico. Nell’ambito delle immunodeficienze primitive l’approccio medico è facilitato da alcune condizioni cliniche che, correlando in gran parte con la natura del deficit immunitario stesso, possono indirizzare verso una corretta procedura di inquadramento diagnostico e terapia. Spesso la diagnosi non è facile e, indipendentemente dalla classificazione codificata al momento delle conoscenze acquisite, si deve sempre considerare il contesto generale per le indicazioni di laboratorio.
Per fare un esempio pratico: il sospetto e la relativa diagnosi di agammaglobulinemia congenita non sono concettualmente difficili, ma è soltanto la prima tappa di un iter che può essere completato in un ambito specialistico che preveda indagini di immunogenetica, biologia molecolare, biologia cellulare. Dunque un iter realistico può essere sintetizzato come segue:
- comparsa dei sintomi e valutazione dei segni (medico di base o altro specialista non immunologo)
- sospetto e prima formulazione diagnostica (si ricordi che oltre il 50% dei difetti immunitari riguarda la produzione di anticorpi)
- attivazione della consulenza specialistica
- diagnosi differenziale IDP / IDS (considerazione dell’età, dell’anamnesi, dell’acquisizione dei risultati relativi delle analisi di primo e/o secondo livello)
- gestione terapeutica e counselling familiare
- ricerca della causa genetica
- assistenza nel tempo del paziente con adozione di criteri di profilassi (uso di immunoglobuline per via endovenosa, antibiotici, fisiochinesiterapia)
- adozione di trattamenti radicali (per esempio trapianto di midollo osseo) in relazione alla diagnosi e alla disponibilità delle cellule trapiantabili
- supporto psicologico al paziente (in genere è consigliabile l’adozione di un sistema assistenziale in day-hospital, in funzione non solo delle terapie sostitutive ma come monitoraggio nel tempo per diagnosticare precocemente le possibili malattie “attese” statisticamente come le neoplasie, fenomeni di malassorbimento, sindromi sistemiche o d’organo a carattere autoimmunitario).
Perché zebre e non cavalli
Il titolo di questo articolo può sembrare un po’ bizzarro ma ha un preciso fondamento. Nella presentazione di un volume della IDF (Immune Deficiency Foundation) il presidente e fondatore Marcia Boyle così si esprime:
Alcuni anni fa, l’immunologo di mio figlio mi disse che molti dottori, durante i loro studi medici, ricevono l’insegnamento secondo il quale “quando si sente il rumore degli zoccoli bisogna pensare ai cavalli, non alle zebre”. Ma gli immunologi devono essere pronti a cercare le zebre, non i cavalli. Piuttosto che focalizzare l’attenzione sulle probabilità maggiori, al momento della diagnosi, devono invece concentrarsi su quelle inusuali. Presso IDF noi pensiamo che i pazienti con immunodeficienze congenite siano le zebre del mondo medico, e che un maggior numero di medici abbiano la necessità di pensare alle zebre e non ai cavalli. Le zebre in una mandria sembrano tutte eguali, ma la distribuzione delle loro strisce è differente in ciascuna, come lo sono le impronte digitali, e nessuna zebra è eguale all’altra. E nemmeno due membri della nostra comunità di pazienti sono tra loro simili.
Nella personale esperienza di chi scrive non pochi pazienti, soprattutto nell’ambito dell’Immunodeficienza Comune Variabile, hanno avuto diagnosi tardiva (anche di molti anni). Il ritardo è stato correlato non tanto a una difetto di assistenza valida: spesso si trattava di persone che ricevevano cure adeguate per le infezioni o altra patologia nota nell’ambito della disregolazione immunitaria; la mancata diagnosi (al momento giusto e nella giusta circostanza osservazionale) era correlata piuttosto alla non considerazione di dati semplici oggettivamente acquisiti, per esempio un protidogramma con la frazione gamma ridotta o ridottissima.
È evidente che nell’ambito della specializzazione propria ciascun medico tende a dare il meglio di sé, ma l’approccio internistico, una visione d’insieme basata su pochi elementi essenziali, e soprattutto sulla capacità di porsi la domanda giusta può consentire di vedere una zebra e di con confonderla con i cavalli.
NUOVE ACQUISIZIONE SULLA STRUTTURA DEL SISTEMA IMMUNITARIO.
La risposta immunitaria specifica
È ben noto che la risposta immunitaria si basa su interazione tra diverse componenti. Il modello della risposta immunitaria si è andato gradualmente arricchendo nel corso degli studi che hanno descritto i caratteri morfologici e funzionali delle cellule variamente coinvolte nelle reazioni all’antigene. Il ruolo centrale nella risposta specifica è svolto della cellula Th (il linfocita T helper CD3+CD4+). Essa stimola l’attivazione dei linfociti B per la produzione di anticorpi e la risposta delle cellule citotossiche (controllo delle infezioni virali, intracellulari in genere, e della crescita neoplastica). La specificità dell’incontro tra antigene (esposto su APC, Antigen Presenting Cell) e cellule dotate del recettore opportuno genera la produzione di linfociti memoria necessari a proteggere l’organismo nel corso del tempo.
La risposta dell’immunità innata
Il sistema della risposta immunitaria adattativa si basa su un gran numero di recettori che sono in grado di interagire ciascuno con il proprio antigene specifico. Il rischio di quest’ampia diversità consiste nel possibile instaurarsi di una reazione autoimmunitaria lesiva per l’organismo di appartenenza. Inoltre, dal momento iniziale dell’infezione all’intervento delle popolazioni linfocitarie, trascorre un lasso di tempo durante il quale i patogeni sono in grado di causare danno ai tessuti invasi. Sebbene il repertorio recettoriale della risposta innata sia relativamente modesto rispetto a quello espresso da TCR (T Cell Receptor) e BCR (B Cell Receptor), tuttavia svolge un ruolo di grande efficacia biologica. Lo schema dell’interazione tra risposta innata e adattativa è concettualmente ben acquisito, ma molte novità hanno arricchito lo
scenario nel corso degli ultimi venti anni. In particolare l’attenzione degli immunologi si è rivolta al ruolo svolto dai Toll- Like Receptor (TLR). Per comprenderne il significato dobbiamo considerare la presenza, su vari patogeni, dei così detti PAMPs. I PAMP (Pathogen Associated Molecular Patterns, o, in lingua italiana profili molecolari associati ai patogeni) sono molecole o frammenti di molecole caratteristici di alcuni microrganismi patogeni. Queste molecole o frammenti di esse non vengono espressi dalle cellule del nostro organismo e quindi rappresentano un bersaglio non-self per l’immunità innata. I PAMP riconosciuti dalla risposta innata sono in numero limitato. Questo “limite” dipende dal fatto che i Pattern Recognition Receptors (PRR) hanno una modesta variabilità e non sono come i recettori linfocitari che possono esprimere milioni di specificità. Nel gruppo dei PRR si trovano i Toll-like receptor. I Toll-Like Receptors (TLR, in italiano Recettori di tipo Toll) costituiscono una famiglia di recettori espressi da molti tipi cellulari. I TLR si trovano in diversi distretti della struttura cellulare. Dei 10 TLR noti, 5 si trovano sulla membrana cellulare dislocati per riconoscere i profili molecolari di agenti patogeni presenti nell’ambiente extracellulare (TLR1, TLR2, TLR4, TLR5, TLR6). Il gruppo degli altri 4 (TLR3, TLR7, TLR8, TLR9) è dislocato sulle membrana intracellulari, come il reticolo endoplasmatico e gli endosomi. Il 10 non è ben conosciuto. Un TLR 11 si trova sui topi. Un punto importante da conoscere riguarda il rapporto tra recettore, ligando, sede del ligando e la presenza del secondo messaggero intracellulare.
VEDIAMO UNA TABELLA RIASSUNTIVA SEMPLIFICATA
La caratterizzazione dei TLR è stato il passo operativo che ha dimostrato come la risposta immunitaria innata sia essenziale per innescare la risposta adattativa e come il sistema immunitario innato sia in grado di svolgere un ruolo critico in molte malattie. Se i TLR vanno incontro
a mutazioni che ne alterano la capacità funzionale si può manifestare una maggiore suscettibilità per alcune infezioni o queste possono essere molto più gravi. Per esempio, mutazioni a carico del TLR 4 possono favore infezioni meningococciche gravissime.
LE IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE E NON CONVENZIONALI
Fino alla metà degli anni Novanta del XX secolo l’attenzione degli immunologi si è concentrata su vari aspetti della risposta immunitaria, in particolare sulle citochine e sullo studio di “nuove” sottopopolazioni linfocitarie. Ma in questo periodo, come già precedentemente accennato, è accaduto qualcosa di nuovo, con grandi benefici per la ricerca medica e, in parte, anche per alcuni particolari malati. In buona sostanza il concetto per cui si riteneva valida l’affermazione che ad un gene si associavano numerose infezioni, paradigma in grado di comprendere molte IDP, è stato sottoposto a una “forte” revisione critica. Questo passaggio si è reso possibile quando sono stati identificati alcuni deficit della risposta immunitaria con uno spettro molto limitato di suscettibilità per determinati patogeni, sostanzialmente limitato ad un unico o a pochissimi agenti patogeni.
Queste IDP definite, appunto, “non convenzionali” si manifestano nel corso della vita anche in età adulta, con poche e talora una sola infezione, con andamento grave. Sono storicamente noti la sindrome linfoproliferativa X-linked, nella quale si sviluppano gravi complicazioni in corso di infezione da virus EBV (mononucleosi fulminante) e una dermatosi da papillomavirus conosciuta come epidermodisplasia verruciforme, ma gli studi del gruppo di J.L. Casanova hanno apportato un contributo rivoluzionario sotto diversi punti di vista. La sindrome da suscettibilità mendeliana a micobatteri si può considerare formalmente un po’ la prima forma di IDP non convenzionale.
In sostanza essa si caratterizza per la predisposizione a sviluppare infezioni da micobatteri che di solito sono poco aggressivi (micobatteri atipici, BCG).
Meno frequentemente sono interessati il Mycobacterium tubercolosis, Salmonella o Listeria (batteri intracellulari). I pazienti con questa sindrome non mostrano invece una suscettibilità per patogeni comuni extracellulari. Il circuito alterato, in queste forme è IFN/IL12-IL23. Un’altra patologia di questo tipo si esprime con una marcata predisposizione ad ammalarsi per infezione da Streptococcus pneumoniae e, meno frequentemente, da Stafilococcus aureus.
Dopo tali osservazioni un ulteriore contributo, sempre dal gruppo di Casanova, si è avuto identificando una mutazione trasmessa con eredità AR nel gene UNC-93B. Questa circostanza si associa alla comparsa di encefalite grave causata dal virus dell’Herpes simplex. Soffermandoci su questo aspetto emerge una prima riflessione.
A molti di noi, nel corso della vita, è probabilmente capitato di manifestare le classiche bollicine dell’ Herpes labialis. Nella maggior parte dei casi, tranne qualche rara eccezione, si tratta di manifestazioni un po’ fastidiose e nulla di più. La guarigione è spontanea e può essere facilitata da una crema antivirale applicata sulle bollicine.
Ma in alcuni “sfortunati” individui, proprio per questa unilaterale caratteristica genetica, il quadro clinico assume un andamento gravissimo e compare una forma di encefalite virale.
Queste importanti scoperte scientifiche dimostrano che soggetti apparentemente sani, in prima approssimazione del tutto immunocompetenti, possono invece avere un vero tallone d’Achille e manifestare un vulnus che li rende suscettibili a un solo patogeno.
COME E QUANDO SI DEVE SOSPETTARE (E RICONOSCERE)
TEMPESTIVAMENTE LA PRESENZA DI UN’IMMUNODEFICIENZA PRIMITIVA?
BIBLIOGRAFIA
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- Cooper DM, Herrin B: How did our complex immune system evolve – Nature Reviews-Immunology 2010; 10: 1 – 2
Prof. Giuseppe Luzi
Prof. Associato di Medicina Interna svolge attività di consulenza in qualità di medico internista e di specialista in Immunologia Clinica.
– BIOSdiagnostica – Via D. Chelini 39, Roma
