LE TERAPIE DI RECUPERO MUSCOLARE POST-ESERCIZIO

Gian Nicola Bisciotti
Sommario
Recuperare in tempi brevi è divenuto ormai un imperativo in molte discipline sportive, soprattutto in quelle nelle quali gli impegni agonistici si susseguono a distanza estremamente ravvicinata. In quest’ambito le terapie ad immersione e l’elettrostimolazione presentano un indubbio interesse, anche se in letteratura manca un sostanziale consenso sia sui protocolli da utilizzare, che sulla positività dei risultati. In questa breve review vengono descritte sia le varie metodiche delle terapie ad immersione che dell’elettrostimolazione utilizzate allo scopo di accelerare il recupero dell’atleta dopo un affaticamento indotto da esercizio esaustivo.
Parole chiave: recupero, terapie ad immersione, elettrostimolazione.
Introduzione
Il recupero muscolare rappresenta un elemento fondamentale nell’ambito della massimizzazione della performance, soprattutto nell’atleta di alto profilo prestativo. Negli ultimi anni siamo stati testimoni di un notevole progresso per ciò che riguarda la metodologia dei sistemi di allenamento nelle varie discipline sportive; tuttavia, nel contempo, le modalità di recupero non si sono evolute di pari passo e, paradossalmente, sovente è l’atleta stesso che, in prima persona, si “autogestisce” in tal senso, fattore che, come logica conseguenza, comporta un non sotto valutabile rischio d’incorrere nel fenomeno dell’over-reaching od addirittura di sfociare in un franco over-training (Mackinnon et Hooper, 1991). Il riposo infatti deve necessariamente essere considerato, a tutti gli effetti, come un importante “mezzo di allenamento” che consente all’atleta di sopportare ed assorbire fisiologicamente i carichi di lavoro proposti all’interno della pianificazione dell’allenamento. Da qualche anno si è fatta strada l’idea che possano essere messe in atto delle apposite strategie grazie alle quali sia possibile accelerare i processi di recupero; tra questi mezzi, che potremmo definire con il termine di “metodiche di recupero accelerato” possiamo ricordare la terapia basata sull’immersione in acqua a diverse temperature, l’ossigenazione iperbarica, i metodi d’accelerazione del ritorno venoso e l’elettrostimolazione (Calder, 1996). E’ universalmente conosciuto che l’esercizio fisico induce, al di là del ben conosciuto fenomeno del DOMS (Delayed Onset Muscle Soreness) – che rappresenta comunque una ben precisa realtà fisiologica a sé stante (Bisciotti ed Eirale, 2012) – delle perturbazioni dell’omeostasi delle cellule muscolari e /o dei fenomeni d’infiammazione locale (Ispirlidis et coll., 2008; Bisciotti ed Eirale, 2012). Occorre comunque sottolineare il fatto che tale situazione, iscrivibile ad un fenomeno di affaticamento a seguito di un’intensa richiesta funzionale, rimane ben distinta dal DOMS, nel quale i fenomeni di perturbazione omeostatica delle cellule ed i conseguenti processi infiammatori, appaiono di ben più ampia portata (Bisciotti e Eirale, 2012). Nel fenomeno del semplice affaticamento post-esercizio (APE) si può assistere solamente ad un incremento dei livelli ematici di creatin kinase (CK) e di lattico deidrogenasi (LDH) quale risposta sia dell’aumentata permeabilità della membrana plasmatica, che all’aumento della vascolarizzazione intramuscolare (Cannon e coll., 1990). Pertanto sia i livelli post-esercizio di CK, che quelli di LHD possono essere, a giusta ragione, assunti come validi markers fisiologici dello stato di fatica dell’atleta (Brancaccio e coll., 2008). In considerazione di quanto sopra esposto, appare non privo di razionale scientifico di applicazione, e quindi ragionevole, proporre tutta una serie di metodi il cui scopo sia quello di accelerare il ripristino dell’omeostasi cellulare basandosi sia su di un miglioramento della circolazione periferica, che su di un ottimizzazione del ritorno venoso e della clearance dei markers della fatica muscolare. Tra tutti i metodi proposti, quelli di maggior razionalità ci sembrano le metodologie basate sull’applicazione di stimoli meccanici, rappresentati da compressioni di debole entità, a livello degli arti inferiori. In effetti i movimenti ritmici di contrazione e rilassamento della muscolatura degli arti inferiori, soprattutto a carico della muscolatura del soleo e del gastrocnemio, producono un’attivazione della pompa venosa grazie ad un aumento del debito sanguigno che facilita in tal modo il ritorno venoso (Nelle vena la pressione sanguigna scende a valori estremamente bassi, tuttavia il ritorno del sangue al muscolo cardiaco è assicurato da svariati fattori che si addizionano al residuo di forza propulsiva del cuore – la cosiddetta vis a tergo – che possiamo schematicamente ricordare in: le valvole a nido di rondine che impediscono i riflussi di sangue, la contrazione dei muscoli scheletrici che agisce sulle vene come una pompa esterna – pompa muscolare, i movimenti respiratori che richiamano sangue verso la cavità toracica e la forza di gravità che facilità il ritorno sanguigno dalle regioni del capo.), riducendo contestualmente il volume intracellulare ed aumentando l’eliminazione dei metaboliti. Questo stesso principio è sostanzialmente applicabile attraverso tre differenti tecniche :
1) L’immersione, che grazie alla pressione idrostatica stimola la pompa venosa muscolare
2) L’immersione alternata in acqua calda e fredda, che unisce ai vantaggi della semplice immersione, un ulteriore stimolo della pompa venosa grazie al fenomeno di vasodilatazione indotto dall’acqua calda ed a quello di vasocostrizione derivante dall’immersione in acqua fredda
3) L’elettrostimolazione a bassa frequenza, di cui esamineremo in seguito i dettagli tecnico/applicativi.
Le tecniche di recupero basate sull’immersione
Questa tipologia di tecniche di recupero si basa appunto sull’immersione parziale o totale in acqua. In bibliografia si ritrovano in quest’ambito sostanzialmente quattro tipi di modalità d’immersione basati sulla diversa temperatura dell’acqua utilizzata. In base alla temperatura si distinguono infatti le seguenti categorie:
- Acqua temperata (TEM) la cui temperatura è compresa tra 15 e 36° C
- Acqua calda (HTW) la cui temperatura è maggiore di 42° C
- Acqua fredda (CTW) di temperatura minore di 15° C
- Terapia a contrasto di temperature (CT), basata sull’immersione alternata in HTW e CTW.
Alcuni studi hanno tentato di chiarire i diversi aspetti di ordine neurologico, metabolico, cardiovascolare e muscolare indotti da questi metodi di recupero applicati su di un “soggetto atleta” in stato di APE (Barnett, 2006 ; Wilcock et coll., 2006 ; Howatson et Van Someren, 2008). Al fine di giustificare, grazie alle tecniche d’immersione, una migliore qualità del recupero od un’accelerazione di quest’ultimo, i vari Autori (Cochrane et coll., 2004 ; Vaile et coll., 2008), adducono principalmente tre tipi di motivazioni:
- I benefici indotti dalla pressione idrostatica sul ritorno venoso
- I fenomeni antalgici associati alla vasocostrizione periferica locale nel caso d’immersione in acqua fredda
- L’induzione di un aumento della vasomotricità nel caso di CT.
Nel primo caso la pressione idrostatica esercita un pressione maggiore rispetto a quella effettuata dall’aria a livello del mare inducendo, in tal modo, una migrazione in senso prossimale di gas, fluidi e sostanze in essi disciolte. Questo fenomeno provoca un’azione antiedemigena nei confronti dell’edema post-esercizio (Wilcock e coll., 2006).
Nel secondo caso, ossia attraverso la CWT, la diminuzione della temperatura corporea in tal modo indotta, agisce in maniera positiva sia sulla trasmissione nervosa degli stimoli nocicettivi, che sui fenomeni infiammatori. Anche la vasocostrizione locale indotta dall’immersione in acqua fredda giocherebbe un ruolo non trascurabile nel limitare la produzione di metaboliti, riducendo pertanto il processo infiammatorio (Barnett, 2006).
Infine, nel caso di CT, l’immersione alternata in acqua calda e fredda, comporterebbe il susseguirsi di un fenomeno di vasodilatazione (indotto dall’immersione in acqua calda) e di vasocostrizione (provocato dall’immersione in acqua fredda), che stimolerebbe il ritorno venoso attraverso un meccanismo di “vaso-pumping” (Cochrane e coll., 2004). L’aumentato ritorno venoso accelererebbe la clearence dei metaboliti ed indurrebbe un effetto antiedemigeno che ridurrebbe i tempi di recupero muscolare. Inoltre la CT, se effettuata attraverso un’immersione totale (i.e. sino a livello del collo) provocherebbe un aumento del volume di eiezione sistolico (VES) ed un contestuale aumento del pre-carico cardiaco (Precarico cardiaco : con il termine di precarico (o preload) s’intende il volume telediastolico, ossia il volume ventricolare alla fine della diastole). L’aumento del debito sanguigno (DS) in tal modo ottenuto (è importante notare che in questo caso il DS aumenterebbe senza la necessità di un contestuale aumento della FC) comporterebbe una diminuzione delle resistenze periferiche ed un aumento del ritorno venoso (Howatson e Van Someren, 2008). Infine, altri studi confermerebbero un effetto di tipo neurogeno nel corso dell’immersione, effettuata in acqua calda o temperata, che si concretizzerebbe attraverso una sostanziale diminuzione dell’attività elettromiografica necessaria al mantenimento della postura, testimoniando in tal modo un effetto miorilassante dell’immersione stessa (Wilcock e coll., 2006).
Tuttavia, anche se le tecniche d’immersione sembrerebbero, perlomeno in via teorica, favorire i processi di recupero, la loro verifica pratica sul campo è spesso fonte di grande variabilità di risultati, soprattutto in funzione delle diverse modalità adottate (Wilcock e coll., 2006).
Le diverse risposte fisiologiche in funzione della temperatura dell’acqua
L’immersione in acqua temperata
In letteratura il range di temperatura all’interno del quale l’acqua è classificata come temperata, è piuttosto ampio, essendo infatti compreso tra 16 e 35° C. Tuttavia, sarebbe più corretto che la classificazione di acqua temperata si riferisse solamente a temperature che permettano di mantenere costante la temperatura corporea per sessanta minuti (ossia temperature di circa 35° C). In ogni caso, siccome è altrettanto corretto tenere in considerazione anche la percentuale di grasso corporeo del soggetto in immersione, il range di temperatura entro il quale l’acqua può essere considerata temperata è compreso tra 33 e 35° C.
Al contrario l’immersione in acqua la cui temperatura risulti compresa tra 37 e 39°C, comporta un aumento della temperatura corporea che può raggiungere, ed anche superare leggermente, i 38° C (Wetson e coll., 1987). L’immersione in acqua a temperatura di 33° C sortisce come effetto un significativo aumento del debito cardiaco, pari a circa il 30%, contestuale ad una altrettanto significativa diminuzione della FC pari a circa il 15%, al contrario l’immersione in acqua calda (di temperatura compresa tra 37 e 39°C) causa un aumento della FC (Wetson e coll., 1987).
Nelle immersioni in acqua temperata il volume di eiezione sistolica può aumentare sino al 50% e continuare ad accrescere per temperature superiori, anche le resistenze periferiche diminuiscono progressivamente all’innalzamento della temperatura d’immersione (Wetson e coll., 1987). Pochi studi si sono focalizzati sulle modificazioni biochimiche nel corso d’immersione in acqua temperata, tra questi possiamo citare Simeckova e coll. (2000), che hanno dimostrato come durante un’immersione totale (sino a livello del collo) in acqua a temperatura di 20° C, l’attività della renina, dell’aldosterone e del cortisolo risultino significativamente diminuite. Interessanti anche i risultati mostrati da Rowsell e coll. (2009), che mostrerebbero l’impossibilità, tramite immersione in acqua temperata, di diminuire i livelli di CK, LDH e mioglobina prodotti nel corso d’esercizio. Anche gli effetti della TEM sulla performance sono relativamente scarsi, sempre Rowsell e coll. (2009) mostrerebbe che l’immersione in acqua a temperatura a 34° C non apporterebbe nessun beneficio sulla prestazione di salto verticale e di sprint.
L’immersione in acqua calda
L’HTW consiste nell’immersione del soggetto, per un tempo compreso tra i 10 ed i 20 minuti, in acqua la cui temperatura sia superiore a 38° C. L’immersione in tali condizioni provoca un aumento della temperatura dei tessuti superficiali indotta dalla vasodilatazione, nonché un aumento del DS cutaneo (Rutkove et coll., 2001). Occorre sottolineare come l’immersione di una cospicua superficie corporea in acqua ad alte temperatura non sia scevra di rischi. In bibliografia infatti si ritrovano casi di tachicardia ectopica (La tachicardia ectopica è una irregolarità del battito cardiaco e del ritmo cardiaco), episodi d’ipotensione, sincopi da calore e svenimenti (Rutkove, 2001).
L’immersione a temperature comprese tra 45 e 50° causa una denaturazione delle proteine ed un aumento della risposta infiammatoria e dell’edema (Wilcock e coll., 2006). L’ipertermia provoca egualmente un’apoptosi cellulare via un’inibizione delle cellule NFkappa-β (Rutkove, 2001) (L’NF-κB (“nuclear factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells”) è una proteina complessa che rappresenta un fattore di trascrizione. L’ NF-κB si può trovare in tutti i tipi di cellule ed è interessata in tutte le reazioni delle cellule agli stimoli, quali stress, attacco da radicali liberi, irradiazione con ultravioletti e attacco proveniente dagli antigeni dei batteri o virus), anche se, perlomeno in via teorica, occorre tenere conto del fatto che l’aumento del flusso sanguigno accentuerebbe la permeabilità delle cellule, dei capillari e dei vasi linfatici; l’aumento del metabolismo così ottenuto consentirebbe un accresciuto aumento dell’apporto di materiali nutritivi ed un simultaneo aumento dell’eliminazione dei metaboliti, accelerando in tal modo i processi di recupero (Coté e coll., 1988). Tuttavia, bisogna anche considerare il fatto che nella HTV, rispetto alla TEM, il flusso sanguigno diretto ai muscoli risulta minore, limitando di fatto il trasporto dei substrati metabolici (Bonde-Petersen e coll., 1992), anche se uno studio di Skurvydas et coll. (2008) ha dimostrato come un’immersione degli arti inferiori della durata di 45 minuti n acqua alla temperatura di 44°C, si sia dimostrato in grado di eliminare la maggior parte dei markers della fatica muscolare (CK ed LDH).
Per ciò che riguarda la sua possibile influenza sulla performance, l’HTW non sembrerebbe correlata a nessuna aumento della capacità contrattile muscolare (Skurvydas et coll., 2008), nonostante il fatto che si assista ad un significativo aumento della velocità di conduzione nervosa, un miglioramento delle capacità propriocettive ed una diminuzione dei tempi di reazione (Wilcock e coll., 2006). Anche a questo proposito non mancano risultati contraddittori come quelli mostrati dallo studio di Vaile e coll. (2008) che registrerebbe, in seguito a HTW, un miglioramento della produzione di forza degli arti inferiori durante l’esercizio di squat isometrico, non confortato però dagli stessi risultati positivi nel movimento di squat-jump.
L’immersione in acqua fredda
La CTW mostra un interesse particolare in campo terapeutico soprattutto per il suo effetto analgesico, e pertanto assume un ruolo di buona importanza nell’ambito del trattamento delle lesioni muscolari acute. La CTW consiste nell’immersione di parte del corpo in acqua la cui temperatura sia compresa tra 4 ed i 16° C . La durata dell’immersione è variabile in funzione dei vari tipi di studi, ma è normalmente compresa tra i 15 ed i 20 minuti. A livello meccanico la CTW induce una vasocostrizione locale associata ad una diminuzione della velocità di conduzione dello stimolo nervoso, ad una diminuzione della FC e ad un aumento della resistenza periferica (Bonde-Petersen et coll., 1992).
Da un punto di vista biochimico la CTW permetterebbe la diminuzione dei livelli ematici di CK (Vaile e coll., 2008), inoltre studi più recenti avrebbero dimostrato come l’immersione in acqua fredda si sia mostrata in grado d’indurre una significativa diminuzione della concentrazione di lattato plasmatico (Crowe e coll., 2007). La vasocostrizione indotta dalla CTW riduce la permeabilità dei vasi nei confronti delle cellule immunitarie, diminuendo in tal modo l’edema ed il processo infiammatorio, nonché riducendo la sintomatologia algica (Bailey, 2007).
Anche la diminuzione della velocità dell’influsso nervoso indotta dalla CTW, indurrebbe una diminuzione della percezione della fatica (Howatson et Van Someren, 2008).
Al di là di questi aspetti, occorre anche tenere comunque presente di come l’immersione in acqua fredda comporti un aumento della spesa energetica necessaria al mantenimento della temperatura corporea, si registrerebbe pertanto nel corso di CWT un aumento della ventilazione, del consumo di O2 e del metabolismo. Inoltre la vasocostrizione associata alla CWT non è del tutto scevra da potenziali pericoli per la salute del soggetto(Janský et coll., 2008). Anche in questo campo non mancano risultati contrastanti, come quelli presentati da Goodall e Howatson (2008), i quali suggeriscono di come la CWT non sortisca un effetto benefico sul miglioramento dello stato di affaticamento dei soggetti trattati. Per ciò che riguarda l’impatto sulla performance della CWT, alcuni studi riporterebbero una minor riduzione della performance durante un test di sprint effettuato dopo un’attività che abbia causato una situazione di APE (Vaile e coll., 2008). Anche altri Autori confermerebbero il fatto che la CWT limiterebbe in condizioni di APE (sia a 24 ore che a 48 ore post-esercizio) la perdita di capacità contrattile a livello della muscolatura estensoria degli arti inferiori (Bailey e coll., 2007; Kinugasa e coll., 2008). Anche in questo caso non mancano le confutazioni, ad esempio sia Goodall et Howatson (2008), che Howatson e Van Someren, (2008) riportano, nei loro studi, di come la CWT (effettuata per 12 minuti ad una temperatura di 15°C) non sia stata in grado di limitare la perdita di forza massimale volontaria a livello della muscolatura degli arti inferiori indotta da esercizio esaustivo.
Anche i dati riportati da Crowe e coll. (2007) non deporrebbero per un miglioramento delle capacità contrattili in seguito a CWT. La contraddittorietà di tali risultai può essere, per lo meno parzialmente, spiegata attraverso il fatto che l’esposizione prolungata al freddo comporta una diminuzione della velocità di conduzione nervosa che, a sua volta, limiterebbe – per un periodo di tempo più o meno prolungato, che è probabilmente da mettersi in relazione alla durata dell’esposizione stessa- la produzione di forza massimale, sia volontaria che indotta, da parte del soggetto (Rutkove, 2001 ; Kinugasa et coll., 2008 ; Peiffer e coll., 2009). Altri studi indicherebbero anche come la perdita di forza dopo esposizione al freddo sarebbe sia di tipo centrale che periferico, anche se le ragioni di ordine periferico sembrerebbero prevale su quelle di tipo centrale (Peiffer e coll., 2010).
L’immersione alternata in HTW e CTW
Come già accennato la CT si basa sull’immersione alternata in acqua calda e fredda. La durata dell’immersione è variabile in funzione dei diversi studi ritrovabili in letteratura e comunque compresa tra 30 secondi e 2 minuti, reiterati per un numero di serie compreso tra 2 e 5. Il razionale fisiologico d’applicazione di questa tecnica e la stimolazione di un effetto di “vaso-pumping” che faciliterebbe il drenaggio dei metaboliti da parte del circolo venoso riducendo, nel contempo, il volume del liquido intracellulare. Se comparata ad un recupero di tipo passivo la CT si dimostra in grado di ridurre in modo significativamente maggiore l’entità dell’edema post esercizio (Vaile e coll., 2008). A dispetto di una bibliografia relativamente ricca, i precisi effetti fisiologici indotti dalla CT non sono ben chiari (Wilcock e coll., 2006).
Alcuni Autori riporterebbero di come, previo trattamento di CT della durata di 15 minuti (alternando un’immersione in acqua fredda alla temperatura di 10°C della durata di 1 minuto, ad una in acqua calda a 42° C della durata di 2 minuti) i livelli di lattato ematico si ridurrebbero significativamente (Coffey e coll, 2004). Vaile e coll. (2008), anche se in seguito a CT non riportano una significativa diminuzione della concentrazione plasmatica di mioglobina, IL 6 (L’IL-6 – interleuchina 6 – è un’interleuchina che agisce come citochina sia pro- sia anti-infiammatoria. E’ secreta dai Linfociti T e dai macrofagi per stimolare la risposta immunitaria, ad esempio durante un’infezione o in seguito ad un trauma) ed LDH, riferiscono comunque di una significativa riduzione della sintomatologia algica a livello muscolare a 72 ore dall’esercizio causante APE.
Gill e coll. (2006) riportano nel loro studio, a fronte di 9 minuti di CT (alternando 1 minuto in acqua fredda alla temperatura di 8-10° C, a due minuti in acqua calda ad una temperatura compresa tra i 40 ed i 42° C) una significativa diminuzione dei livelli di CK plasmatici. In linea generale quindi possiamo affermare come in letteratura vi sia un vasto consenso sul fatto che la CT mostri un innegabile interesse per ciò che riguarda la diminuzione ed il controllo della risposta infiammatoria post-esercizio (Coffey e coll., 2004 ; Gill e coll., 2006 ; Vaile e coll., 2007). Gli effetti sulla performance della CT sono nondimeno ancora una volta contrastanti. In effetti, se da un lato ritroviamo Autori che riportano un miglioramento della capacità di sprint in seguito a CT (Ingram e coll., 2009), dall’altro ci troviamo di fronte a studi che negano quest’aspetto (Howatson et Van Someren 2003 ; Wilcock e coll., 2006; Goodall et Howatson, 2008).
Tuttavia, occorre considerare come nell’ambito di queste indagini siano stati utilizzati differenti tipi di protocollo, sia per ciò che riguarda l’induzione del fenomeno di fatica, sia per ciò che riguarda le modalità di CT. Come testimonierebbero diversi studi, la risposta fisiologica all’immersione varierebbe sensibilmente in funzione dei parametri utilizzati (i.e. temperatura dell’acqua, durata dell’immersione, livello d’immersione del corpo) (Farhi et Linnarsson, 1977 ; Wilcock et coll., 2006 ; Morton, 2007; Goodall et Howatson. 2008), questo potrebbe, spiegare, perlomeno parzialmente, la discrepanza dei risultati reperibili in letteratura.
Figura 1: edema da sforzo bilaterale a livello del VMO in un giocatore di calcio di livello internazionale. Il quadro è completamente regredito in tre giorni in seguito ad applicazione di CT.
La terapia di elettrostimolazione a bassa frequenza
Nell’ambito del fenomeno del ritorno venoso, i muscoli del polpaccio svolgono un ruolo fondamentale, sin tanto che alcuni Autori li hanno, a giusta ragione definiti come “il cuore periferico di Starling”. In effetti il meccanismo di “pompa muscolare” da loro svolto, in una situazione di ottimale continenza valvolare, è responsabile di ben circa l’80% del ritorno venoso totale (Morton, 2007).
In molte attività sportive, come ad esempio il ciclismo, il sollevamento pesi o lo sprint, si verifica spesso una situazione di blanda ischemia periferica, associata ad occlusione vascolare e breve iperpressione venosa (Zuccarelli e coll., 2005). Inoltre, anche gli sport di endurance possono provocare un disfunzionamento transitorio della pompa venosa in corso di esercizio prolungato (Zuccarelli e coll., 2005). La terapia di elettrostimolazione a bassa frequenza rivolta alla stimolazione della muscolatura degli arti inferiori (generalmente si consiglia l’applicazione degli elettrodi a livello dei muscoli del polpaccio) allo scopo di creare un meccanismo di “vaso pumping” simile a quello ottenuto con CT, utilizza delle apparecchiature che generano una corrente rettangolare, bifasica e simmetrica la cui intensità è generalmente lasciata alla libera regolazione del paziente stesso in funzione della sua sensibilità e tolleranza. La frequenza degli impulsi è in genere compresa tra 0.6 e 0.8 Hz (ossia molto simile al ritmo cardiaco) e le sedute consigliate sono di circa 20 minuti, ossia equivalenti a 1500-1600 contrazioni. Alcuni studi testimonierebbero dell’efficacia di questa metodica nello smaltimento dei metaboliti e nell’ottenimento di un più rapido ritorno ai valori di forza massimale volontaria dopo APE (Faghri e coll.,1998 ; Zuccarelli, 2005), anche se obiettivamente mancano ancora concrete evidenze in tal senso.
Conclusioni
Il recupero muscolare dopo attività fisica esaustiva è ormai divenuta una priorità nell’ambito di molte discipline sportive, e soprattutto in quelle nelle quali gli impegni agonistici si succedano a distanza estremamente ravvicinata, come ad esempio nel calcio, ed in cui pertanto un pronto recupero dell’atleta sia, già di per sé, una strategia di successo. Le terapie basate sui diversi metodi d’immersione rappresentano sicuramente in quest’ambito un interessante strumento terapeutico. Tuttavia, in letteratura vi è una sostanziale mancanza di evidenza sia per ciò che riguarda i diversi protocolli terapeutici proposti, sia per ciò che concerne i risultati ottenuti. Allo stato dell’arte attuale la CT ci sembra, tra tutte le tecniche prese in esame, quella che fornisce maggiori evidenze di out-come positivi, al di la di ciò, anche per quest’ultima necessiterebbero comunque ulteriori studi di maggiore evidenza.
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Gian Nicola Bisciotti
Pysiologist Lead c/o Qatar Orthopaedic and Sport Medicine Hospital, FIFA Center, Doha (Q).
Senior Coordinator Kinemove Rehabilitation Centers, Pontremoli, Parma, La Spezia (I)
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