Franco Sardella
Istituto di Medicina e Scienza dello Sport del CONI
Nelle indagini cliniche sempre più frequentemente ci si imbatte per scopi diagnostici e/o valutativi nei test cardiopolmonari. Questi sono test sicuramente complessi che necessitano, per essere correttamente eseguiti e/o interpretati, di essere a conoscenza di nozioni fisiologiche, oltre che cliniche, abbastanza approfondite. Scopo dell’articolo è appunto evidenziare alcuni di questi aspetti.
Quando si parla di test cardiopolmonari si dovrebbe sempre tenere a mente quale è l’obiettivo da raggiungere:
Per far ciò è necessario quantificare in maniera accurata il carico di lavoro somministrato e misurare nel migliore dei modi il costo energetico relativo al lavoro effettuato.
Quindi una corretta esecuzione di un test cardiopolmonare richiede di:
Per far ciò è necessario utilizzare degli ergometri dove sia possibile impostare un carico di lavoro ben quantificato. Questa necessità ci costringe ad evidenziare alcuni aspetti collegati alla scienza dell’egometria (scienza che si interessa della misura del lavoro meccanico o della potenza muscolare).
In effetti può essere utile analizzare da un punto di vista dell’ergometria gli strumenti più in uso per proporre i carichi di lavoro nei test cardiopolmonari.
Il cicloergometro è senz’altro uno di quelli più utilizzati; quali sono i pro e i contro di questo strumento quando si somministra un test cardiopolmonare?
In sintesi si può dire che lo strumento è economico, poco ingombrante e normalmente, dato il limitato e ordinato movimento richiesto, ha il vantaggio di presentare un basso numero di artefatti sul tracciato elettrocardiografico che monitorizza la prova ed infine, particolare da non trascurare, con questo ergometro è possibile quantificare con precisione il lavoro prodotto (Fig. 1).
Fig. 1 – Cicloergometro
Un altro ergometro abbastanza diffuso è il nastro trasportatore: quest’ultimo ha il vantaggio di impegnare la muscolatura che usiamo più regolarmente, infatti su questo ergometro il lavoro che può essere proposto è il camminare o il correre, sicuramente gesti più vicini alla usuali attività quotidiane con pieno coinvolgimento delle grandi masse muscolari degli arti inferiori e con minori problemi di “fatica locale” rispetto ai lavori proposti al cicloergometro.
Di negativo il nastro trasportatore presenta una maggiore difficoltà per definire l’intensità di lavoro perché usualmente i test si effettuano variando sia la velocità che la pendenza (Fig. 2).
Fig. 2 – Test al nastro trasportatore con carico “distribuito” tra pendenza e velocità del nastro
Infine non sono da dimenticare gli “armoergometri” ossia quegli ergometri che coinvolgono solo gli arti superiori (Fig. 3).
Fig. 3 – Esempio di ergometro per gli arti superiori
Normalmente questi strumenti sono utilizzati nel campo medico per lo studio di quei pazienti inabili all’esecuzione di esercizi coinvolgenti gli arti inferiori.
Con questi ultimi il carico di lavoro è ben definibile essendo in pratica dei cicloergometri modificati ma c’è da segnalare che il coinvolgimento dei muscoli respiratori accessori rende questo tipo di esercizio meno tollerato dai pazienti con malattie polmonari.
Esaminati brevemente i pro e i contro degli ergometri più comunemente utilizzati è necessario ora spendere qualche parola sulle modalità per raggiungere il massimo consumo di ossigeno in soggetti sani allenati e non.
In primo luogo è importante utilizzare protocolli di lavoro che oltre ad impegnare le masse muscolari siano validi per coinvolgere il soggetto per tempi di lavoro abbastanza lunghi e abbastanza intensi da attivare al massimo il sistema cardiopolmonare.
Se è un atleta, i carichi e le modalità di lavoro dovrebbero avvicinarsi il più possibile a quelli che sono gli esercizi specifici di gara dove l’atleta può esprimere il massimo essendovi specificamente adattato per il tipo di allenamento effettuato.
Quindi l’ideale sarebbe poter proporre degli ergometri specifici per ogni disciplina e ciò, per quanto possibile, è quello che viene praticato presso l’Istituto di Scienza dello Sport dove oltre a cicloergometri specifici (adattabili per il telaio e le possibilità di carico) per ciascun ciclista, ci sono nastri trasportatori capaci di pendenze e velocità che coprono tutta la gamma di discipline che hanno a che fare con il camminare e il correre o ergometri specifici per simulare il gesto del vogare (remo-ergometro), del pagaiare (kayak-ergometro) o del nuotare (vasca ergometrica).
Se non è un atleta bisognerà cercare di proporre al soggetto un ergometro, quando è possibile, il più adatto alle sue capacità di prestazione muscolare e un protocollo di lavoro che gli permetta di esprimere il massimo delle sue potenzialità in termini di carico lavorativo e di impegno cardiopolmonare.
Sicuramente l’avvento dei metabolimetri che analizzano i gas polmonari respiro per respiro ha facilitato moltissimo la comprensione di alcune dinamiche fisiologiche che si realizzano quando intraprendiamo un carico di lavoro.
Un esempio dei dati che si possono raccogliere con un metabolimetro “respiro per respiro” è riportato in Tabella 1.
Tabella 1
Nella tabella sono mostrati alcuni dei dati ottenibili con questi nuovi metabolimetri. In particolare vorrei sottolineare la possibilità di conoscere i tempi di inspirazione ed espirazione (TI e TE) o il rapporto tra tempo di inspirazione e tempo totale di respiro (TI/TTOT). Questi tempi per esempio ci fanno riflettere sulla dinamica del nostro respiro che a riposo è sbilanciata a favore del tempo espiratorio (più lungo dell’inspiratorio) mentre all’apice dello sforzo c’è una tendenza al pareggio tra i tempi di inspirazione ed espirazione.
Rimanendo nell’ambito della respirazione ed esaminando la ventilazione (VE) polmonare durante un esercizio a carico costante di intensità media o elevata, questa si modifica presentando tre distinte fasi.
La prima, immediatamente all’inizio dell’esercizio, è caratterizzata da un improvviso aumento della VE, accompagnata da un simultaneo aumento degli scambi gassosi a livello polmonare di ossigeno e di anidride carbonica (Fig. 4).
Fig. 4 – Andamento della ventilazione durante un esercizio a carico costante di intensità media
La seconda fase è rappresentata da un aumento esponenziale della ventilazione. Infine la terza fase è caratterizzata da uno stato stazionario dei valori di ventilazione.
Al termine di un esercizio costante, la ventilazione diminuisce improvvisamente all’inizio, per poi ridursi esponenzialmente verso i valori di riposo (Fig. 4).
Se ci si sofferma sul decremento della ventilazione ed in particolare al consumo di ossigeno ad essa collegato possiamo parlare di debito di ossigeno, termine che fu per la prima volta utilizzato da Hill et al. nel 1923 per indicare la quantità di ossigeno consumata in eccesso rispetto al valore basale di riposo e necessaria nel dopo-esercizio a metabolizzare il lattato accumulato.
Alla base di tale ipotesi c’era l’assunto che la maggior parte del lattato prodotto (80% circa) durante l’esercizio fosse convertito in glicogeno nel periodo di recupero e che l’energia necessaria per far ciò provenisse dall’ossidazione attraverso il ciclo di Cori del rimanente lattato (20%).
Questa ipotesi fu ripresa e modificata da Margaria (1964) che identificò nella curva del consumo di ossigeno dopo esercizio due fasi: la prima, più veloce definita alattacida, necessaria alla resintesi dell’ATP e della PC, e la seconda, più lenta, definita lattacida, utilizzata per smaltire il lattato prodotto nel corso dell’esercizio (Fig. 5).
Fig. 5 – Debito di ossigeno
Allo stato attuale l’ipotesi iniziale di Hill non sembra più in grado di spiegare esaurientemente i fattori responsabili delle maggiori quantità di ossigeno consumate rispetto ai valori di base nel dopo esercizio.
Il consumo di ossigeno nel dopo esercizio (excess post exercise oxygen consumption (EPOC) è sicuramente dipendente anche dalla componente metabolica anaerobica.
Per conoscere il contributo energetico di provenienza anaerobica durante il lavoro muscolare si è fatto ricorso anche alla misura del deficit di O2.
Con il termine deficit di O2 si è soliti definire la differenza tra il volume di ossigeno effettivamente consumato dall’inizio dell’esercizio fino al momento in cui si raggiunge la stabilizzazione del VO2 e il volume di ossigeno che verrebbe consumato in un tempo uguale se la prova raggiungesse nell’istante iniziale lo stato stazionario (Fig. 6).
Fig. 6 – Deficit di ossigeno
Si tratta di calcolare, in altri termini (ipotizzando che, nel tempo considerato, la prova sia completamente aerobica), il volume di ossigeno mancante nella prova reale rispetto all’ipotesi teorica.
Il deficit di O2 è quindi riferito solo alla fase iniziale dell’esercizio, più precisamente fino al momento in cui il VO2 si stabilizza (stato stazionario).
Qualora il soggetto raggiunga il VO2 max e la richiesta di energia ecceda, durante il resto dell’esercizio, tale valore, questa quota non assume il nome di deficit di O2 ma quello di richiesta di ossigeno in eccesso (oexcess oxygen requirement, EOR degli Autori anglosassoni) (Fig. 7).
Fig. 7 – Richiesta di ossigeno in eccesso
Quindi il deficit di O2 e l’EOR rappresentano la misura della quantità di energia che viene fornita da fonti energetiche differenti da quella aerobica per sintetizzare l’ATP necessario a compiere il lavoro muscolare.
Da un punto di vista metabolico essi dipendono essenzialmente:
1) dalle riserve di ATP e PC
2) alle riserve di O2 dell’organismo (O2 contenuto nei polmoni, legato all’emoglobina del sangue venoso e quello legato alla mioglobina dei muscoli)
3) dalla produzione di lattato.
La grandezza dei punti 1) e 2) corrisponde a circa il 30% del deficit di O2 e Saltin (1990) afferma che l’aumento dei valori di deficit di O2 è funzione di una maggiore produzione di lattato. In realtà l’intervento di questi tre parametri nella produzione del deficit e dell’EOR differisce in base all’intensità dell’esercizio.
Più dettagliatamente, poiché la scissione della PC è funzione costante del VO2 le riserve di O2 intervengono maggiormente nei lavori submassimali: in questi ultimi il deficit di O2 è di modeste dimensioni ed è minore nei soggetti allenati (che hanno una più rapida cinetica della fase iniziale dello sforzo dell’O2) rispetto ai non allenati.
Nelle prove massimali a esaurimento, al contrario, la produzione di lattato è elevata e partecipa in maniera consistente alla produzione dell’energia necessaria a compiere il lavoro; il deficit di O2 e l’EOR sono in questo caso sicuramente maggiori dei valori ottenuti con le prove submassimali.
Nell’ambito di un test a carico costante l’incremento del VO2, misurato con un metabolimetro respiro per respiro, l’unico in grado di seguire con la necessaria frequenza di campionamento il fenomeno, si può individuare un andamento caratteristico che presenta un primo aggiustamento rapido (fase I) di breve durata e di incerta natura, cui segue una seconda fase (fase II) che rappresenta il vero e proprio onset dell’O2, poi il VO2 raggiunge uno stato stazionario per carichi inferiori alla intensità di soglia anaerobica (Fig. 8).
Fig. 8 – Andamento del VO2 durante un test a carico costante di intensità pari al 50% del VO2 max
Per carichi superiori alla soglia anaerobica ma inferiori al VO2 max si assiste ad un progressivo incremento del VO2 nonostante che il carico di lavoro rimanga costante; questo fenomeno si definisce fase lenta del VO2(fase III) ed è di natura ad oggi non ancora completamente chiarita (Fig. 9).
Fig. 9 – Andamento del VO2 durante un test a carico costante di intensità pari al 90% del VO2 max
Prendendo in considerazione un test incrementale con carichi di breve durata ed incrementi di modesta intensità invece, si può, già dalla semplice analisi della ventilazione polmonare, individuare due bruschi incrementi che corrispondono alla prima e alla seconda soglia ventilatoria (Fig. 10).
Fig. 10 – Risposta ventilatoria durante un test incrementale con carichi di breve durata ed incrementi del carico di modesta intensità
La prima soglia ventilatoria si può spiegare con la necessità di compensare l’iniziale produzione di radicali acidi a livello muscolare attraverso il tamponamento con bicarbonati , che indurrebbero un incremento della VCO2cui seguirebbe un incremento della ventilazione. La seconda soglia invece evidenziabile per lo più nei soggetti allenati, corrisponde ad un abbassamento del pH (soglia ventilatoria non compensata).
Estendendo poi l’analisi ad altri parametri analizzabili durante un test a carichi crescenti, quando l’intensità del carico supera il 55-70% del VO2 max, possiamo vedere che in corrispondenza della seconda soglia ventilatoria si può notare anche un brusco incremento della produzione del lattato ipotizzando così che la cosiddetta soglia anaerobica del lattato possa essere determinata in maniera incruenta (Fig. 11).
Fig. 11 – Andamento dei parametri respiratori e della lattatemia in un test a carichi crescenti
In effetti con il monitorare l’equivalente respiratorio dell’ossigeno (VE/VO2) e l’equivalente respiratorio della CO2 (VE/VCO2) è stato dimostrato che è possibile identificare la soglia anaerobica del lattato in maniera incruenta (Fig. 12).
Fig. 12 – Determinazione della soglia anaerobica del lattato tramite l’equivalente respiratorio dell’ossigeno (VE/VO2) e della anidride carbonica (VE/VCO2)
Un test cardiopolmonare con carichi di lavoro di durata sufficiente per creare condizioni di stato stazionario può darci informazioni anche semplicemente osservando l’andamento della frazione espiratoria dell’ossigeno (FEO2). Infatti quest’ultima è un buon indice per valutare gli adattamenti aerobici di base, la cosiddetta resistenza aerobica, che sarà tanto migliore quanto più basso sarà il valore di frazione espiratoria. Con l’incremento del livello di lavoro la maggiore stimolazione ventilatoria porterà ad una riduzione dell’estrazione (ovvero un livello maggiore di FEO2) fino ad un rapido incremento di tale parametro nei carichi superiori alla soglia anaerobica (Fig. 13).
Fig. 13 – Andamento della frazione espiratoria dell’ossigeno
Anche prestare attenzione all’andamento della frequenza cardiaca, in un test a carichi crescenti, può darci delle indicazioni sulla soglia anaerobica: la perdita di linearità tra intensità del carico e frequenza cardiaca è infatti alla base del metodo proposto da Conconi per determinare la soglia anaerobica (Fig. 14).
Fig. 14 – Test Conconi
Prima di procedere su alcune considerazioni di carattere clinico sui test cardiopolmonari può essere utile ricordare alcuni aspetti fisiologici collegati alle curve di dissociazione dell’emoglobina (HbO2) perché strettamente collegate al massimo consumo di ossigeno (Fig. 15).
Fig. 15 – Curva di dissociazione dell’emoglobina
Le prime due cose che dobbiamo notare è che più elevata è la PO2, maggiore è l’associazione dell’O2 con la emoglobina (Hb); e che più bassa è la PO2, maggiore è la dissociazione dell’O2 dalla Hb. La terza cosa che dobbiamo notare è che la forma della curva è pressoché piatta nella parte superiore. Ciò significa che in questa porzione della curva una forte variazione di PO2 si accompagna solo ad una lieve modificazione della quantità di O2 legato alla Hb. In questo caso la porzione superiore appiattita della curva indica l’esistenza di una protezione contro una inadeguata ossigenazione del sangue malgrado forti diminuzioni della PO2. Le ripidi porzioni intermedia e inferiore della curva hanno anch’esse funzioni protettive ma di natura diversa. In questi tratti della curva una piccola variazione della PO2 si accompagna ad una grande variazione della saturazione della Hb. Di conseguenza, una lieve diminuzione della PO2 tessutale rende i tessuti capaci di estrarre un quantitativo relativamente grande di ossigeno. Durante un esercizio muscolare aumenti dell’acidità del sangue (pH diminuito) della temperatura e della CO2 provocano uno spostamento a destra della curva di dissociazione della HbO2. Questo spostamento risulta estremamente importante perché una maggiore quantità di ossigeno può essere disponibile per i tessuti a parità di PO2 tessutale (maggiore differenza artero-venosa [diff a-VO2]) e perché il carico di O2 portato dal sangue non viene fortemente interessato.
Passando ora a considerare un paziente con scompenso cardiaco cronico sottoposto ad un test cardiopolmonare, possiamo schematizzare differenti fenomeni di adattamento emodinamico, sia centrale che periferico (Tabella 2).
Tabella 2 – Paziente con scompenso cardiaco: adattamenti emodinamici durante test cardiopolmonare
L’importanza dei parametri elencati a sinistra nella tabella 2 si possono concretizzare, in un test cardiopolmonare, osservando il diverso comportamento del polso di ossigeno, parametro che mette in rapporto il consumo di ossigeno con la frequenza cardiaca (VO2/FC) (Fig. 16): nei pazienti con scompenso cardiaco vi è un lieve incremento del polso dell’O2 solo nella fase iniziale dell’esercizio.
Fig. 16 – nei pazienti con scompenso cardiaco vi è un lieve incremento del polso di O2 solo nella prima fase dell’esercizio
D’altra parte considerando che nello scompenso cardiaco cronico ci sono anche alterazioni della ventilazione conseguenza dell’aumentato contenuto idrico del polmone, delle elevate pressioni vascolari intra-toraciche e dell’aumento delle dimensioni del cuore, possiamo valutare questi aspetti analizzando il rapporto tra ventilazione (VE), consumo di ossigeno (VO2) e frequenza respiratoria: infatti a parità di consumo di O2, nei soggetti con scompenso cardiaco c’è un incremento di ventilazione che si realizza incrementando la frequenza respiratoria e riducendo parallelamente il volume corrente (Fig. 17).
Fig. 17 – Durante test incrementali, i soggetti con scompenso cardiaco, a parità di ventilazione, presentano una più elevate frequenza respiratoria
Inoltre, poiché uno dei fattori che contribuisce all’incremento della ventilazione è un aumento dello spazio morto durante esercizio, mentre nel soggetto normale si ha una diminuzione, il rapporto spazio morto/volume corrente (VD/VT) è uno dei criteri di differenziazione tra le diverse patologie che possono indurre una limitazione funzionale (Fig. 18).
Fig. 18 – Andamento del rapporto spazio morto/volume corrente (VD/VT) durante esercizio (vedi testo)
In Fig. 18 si ha l’andamento di questo rapporto (VD/VT) durante l’esercizio nei pazienti con grave alterazione del rapporto ventilazione/perfusione (“mismatch”), nei pazienti con scompenso cardiaco e nei soggetti normali.
Tra gli aspetti clinici e fisiologici al contempo vorrei ricordare che ad aumento o riduzione delle dimensioni del cuore o del polmone ne consegue una modificazione opposta dell’altro: concettualmente prima della interdipendenza cuore-polmone, esiste quella dei due settori cardiaci. Questa è mediata primariamente dalla presenza del setto interventricolare che appartiene ad ambedue i settori cardiaci (destro e sinistro). Dato che il flusso del sangue è dal cuore di destra a quello di sinistra si parla di interdipendenza di serie. Questa è resa manifesta durante manovre in cui è possibile modificare il ritorno venoso senza variare significativamente la respirazione, quali l’ortostatismo passivo, l’innalzamento degli arti inferiori oppure manovre che modificano il ritorno venoso mediante fenomeni respiratori. È verosimile che durante l’esercizio ci sia una accentuazione dell’interdipendenza cuore-cuore, ma la sua presenza è mascherata da fenomeni di interdipendenza cuore-polmone (interdipendenza in parallelo).
Questo fenomeno diventa più rilevante quando entrambi gli organi aumentano il loro lavoro come fisiologicamente avviene durante l’esercizio fisico. Intorno al cuore vi sono delle sierose, pericardio e pleura, che devono scivolare tra loro, l’una sull’altra, in modo da garantire le modificazioni volumetriche dei due organi in assenza di punti di applicazione di forza. Ciò implica che le variazioni volumetriche sono possibili per fenomeni di adesività tra le sierose; questi fenomeni, inoltre, sono energeticamente costosi in funzione della compliance di cuore e polmone (Fig. 19).
Fig. 19 (vedi testo)
È chiaro che in sistole, quando il volume del cuore diviene più piccolo, il cuore deve attrarre a sé il polmone e questo sarà energeticamente tanto più costoso quanto più il polmone è rigido. Durante l’esercizio un altro fenomeno concorre ad aumentare la resistenza vascolare polmonare (RPV) ed è l’aumento volumetrico del polmone. È noto, infatti, che la resistenza vascolare polmonare deriva dalla somma di due resistenze, quella dei vasi alveolari e quella dei vasi extra-alveolari, le quali hanno un comportamento opposto durante le variazioni volumetriche del polmone (Fig. 20).
Fig. 20 (vedi testo)
Esaminando gli adattamenti all’esercizio moderato e costante di un paziente con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) può essere utile evidenziare che in questi pazienti la cinetica dell’O2 è rallentata (Fig. 21).
Fig. 21 (vedi testo)
Mentre se consideriamo in tali soggetti il costo in O2 del lavoro (ÆVO2/ÆWatt) può risultare simile a quello osservato in soggetti normali, ovvero una pendenza di circa 10 ml O2 min-1Watt-1 perché consumano meno ma producono anche meno lavoro.
Infine per concludere si può ricordare che la ridotta capacità allo sforzo e la sensazione di dispnea nei pazienti con malattie respiratorie croniche sono la conseguenza di molti fattori tra i quali è compreso:
Ultima riflessione a conclusione di queste note è che quando il test cardiopolmonare si rivolge a un soggetto con cardiopatia o broncopatia bisogna anche tener conto che quest’ultimo, in virtù della sua patologia, può presentare già di per sé una riduzione della capacità aerobica sia per un ridotto uso delle masse muscolari, sia per una ridotta funzionalità di queste ultime a causa di altri fattori nutrizionali o farmacologici.
BIBLIOGRAFIA
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